Era un costume italiano, molto italiano, nato, all’incirca, negli anni Trenta, negli anni dello “svecchiamento” nazionale; del “largo ai giovani”; del diffuso bisogno dei giovani, delle giovani, di potersi esprimere, di poter “liberare” la propria natura, di accelerare insomma il passo; di “credere e vivere robustamente”, come già aveva insegnato Wolfgang Goethe. Senza nulla togliere al Sessantotto, la “rivoluzione giovanile” almeno da noi non iniziò, come invece si crede, negli Sessanta o Settanta. Mosse, appunto, i primi passi, un po’ prima…
Quel costume era rappresentato dalle festicciole da ballo che venivano date in abitazioni private la domenica pomeriggio, ma talvolta anche il sabato pomeriggio. A organizzarle, in genere era la “padroncina” di casa o le “padroncine” di casa che già intorno alle due o le tre pomeridiane si ritrovavano sotto l’assedio dell’ansia… Verranno tutti quelli che abbiamo invitato?? Oddio, speriamo che arrivi ‘almeno’ la metà di quelli che abbiamo invitato…Sarebbe già un successo! Piaceranno i nostri nuovi dischi??
Analogo il quadro che si presentava in Francia, in Inghilterra, in Svezia, nella Germania Occidentale. Ma in Italia quest’indirizzo, questa tradizione, era accompagnata da un respiro maggiore, da una estensione maggiore, da una ben più ampia coralità. La domenica pomeriggio si ballava tanto nelle case piccolo-borghesi quanto nelle case medio e alto-borghesi – e in magioni dell’aristocrazia. Era così a Milano come a Parma, a Torino come a Genova, a Firenze come a Livorno, a Roma come a Napoli, come a Catania, Palermo, Messina, Potenza, Bari.
La prima festicciola da ballo cui partecipai nella mia vita, risale all’ottobre del 1959; avevo tredici anni. Per l’occasione, mia mamma m’aveva insegnato a ballare, a ballare lo “slow”, lei che era danzatrice impeccabile, spumeggiante. Ero stato invitato in casa Fabbrani, quartiere Campo di Marte, Firenze; da Gloria Fabbrani, mia compagna di classe, figlia del Fabbrani “re del legname”.
La prima festicciola da ballo cui presi parte a Roma, dove abitavo da un mese o due, si tenne in un appartamento di Via Tolmino (Trieste-Salario) una domenica pomeriggio del dicembre del 1961. A lanciarla furono due sorelle che avevo conosciuto settimane prima nella sede centrale della “Giovane Italia”, il raggruppamento studentesco (ma non solo studentesco) vicino al Movimento Sociale Italiano. Non ricordo, ahimè, i nomi delle due ragazze. Ma ricordo in modo nitido la loro espressività, la loro contentezza, il loro “orgoglio” quando, a un tratto, si registrò un numero di invitati pari al previsto e intanto risuonavano le voci, inconfondibili, di Peppino Di Capri, Nat King Cole, Elvis Presley, Mina, Umberto Bindi, altri ancora. Le due paffute e leggiadre sorelle ci guardavano estasiate, quasi commosse; seguitavano pimpanti a offrire bibite e pasticcini nell’immenso appartamento arricchito da arazzi e maioliche, fornito di termosifoni in ghisa. A me pareva che la vita mi stringesse a sé in un caldo e prolungato abbraccio.
***
Comunicavamo. Non facevamo che comunicare. Alle festicciole da ballo, già a sedici, diciassette, diciott’anni, discutevamo di Moravia e Brecht, Hemingway e Steinbeck, Elliott e Pinter, Beckett e Maugham, Fellini e Visconti. S’imparava sempre qualcosa. S’imparava nelle “furiose” dispute letterarie, filosofiche, politiche. Poi, si riprendeva a ballare… Almeno a Firenze, si ballava “stretti”… Le ragazze fiorentine (ma anche romane, milanesi, torinesi, napoletane, siciliane) di cinquanta e più anni fa, si vestivano come si vestivano le loro mamme: tailleur avvitatissimi, calze color tabacco, scarpe dal tacco abbastanza alto. Erano radiose, vaporose. E parecchio più “avanti” di noi ragazzi, sebbene noi, per vezzo, facevamo “gli uomini di mondo”… Raccontavamo balle…! Balle tipo: “Giorni fa, a Marsiglia, ho firmato l’atto d’arruolamento nella Legione Straniera! […] A luglio non mi vedrete per un po’: un’ereditiera brasiliana mi vuole per qualche settimana nella sua villa di Castiglioncello […] Sì, gioco a ‘Black Jack’, vinco, vinco spesso”…
Eppure, crescevamo. Maturavamo senza nemmeno accorgercene. La nostra mente non si fermava un momento. A una festa da ballo seguiva un’altra festa da ballo. Si facevano amicizie, si consolidavano amicizie; sbocciavano ‘flirt’; nascevano ‘grandi amori’; tramontavano ‘grandi amori’. Magari non avevamo ben chiaro quello che volevamo fare in futuro, vale a dire “da grandi”; non avevamo ben chiaro quale fosse la nostra “vera” vocazione; la nostra strada. Ma in molti di noi s’agitava appunto l’impulso di gettarci nella mischia, d’affrontare felici il “turbinìo” della vita; d’aprire insomma spazi alla nostra azione. Su tutto questo ci concentravamo, specie in occasione delle festicciole da ballo… “Divina” la musica che ascoltavamo, “divina” la stretta ricambiata dalla ragazza nella danza “strusciata”, sempre più lenta… Era l’epoca del Ballo della Mattonella!
***
In casa Wolf, a Firenze, non si ballava “soltanto” il sabato o la domenica pomeriggio: si ballava tutti i giorni! Ogni giorno in casa Wolf si svolgeva un “happening”! Vi si svolgeva per volontà del padrone di casa, Stefano Gragnani, che all’atto della separazione fra suo papà Alberto Gragnani e sua mamma Berta Wolf, era stato lasciato alle cure delle genitrice. Stefano Gragnani… Un grillo! Un poliedrico, un fantasioso, anticonformista autentico, ragazzo dotato di straordinario coraggio morale; l’irriverente che tuttavia non scade mai nell’offesa, nell’invettiva. Un mostro d’intelligenza. Versato nel Teatro, nelle Lettere. Nella “ribellione”! Uno che odiava la plastica, il linoleum!
Nel suo villino di Via Emanuele Repetti, l’”happening’ si mostrava multiforme: c’era l’”happening” del ballo, quello della meditazione (!), quello del “confronto politico”; quello (udite udite!) della “rivelazione”… Su sua indicazione, dovevamo svelare quali fossero i nostri più “scandalosi”, “reconditi” desideri carnali, e riflettervi sopra, ma senza cercare “espiazione”; al contrario! Le ragazze tipo la Sarah, morettina, snella, flessuosa, un poco fatale, ci si divertivano un mondo… Ma i limiti, i giusti limiti, mai li superammo.
***
Maturavamo, eccome se maturavamo, magari in silenzio, senza fanfare, senza sbavare dalla voglia di sentirci dire “bravi”! Vivevamo d’istinto, ma non di rado riuscivamo ad avvicinarci alla Ragione. Fra i balli, le “pomiciate”, gli appuntamenti, le telefonate “galeotte”, cominciavamo a capire a che cosa eravamo portati, intravedevamo finalmente la via che poi avremmo seguito fino in fondo, “no matter what”!, come si dice in Inglese. Era la Musica, sissignori, la Musica di quelle domeniche, di quei sabati, di quegli anni. Essa ci riconduceva a noi stessi nell’abbraccio della ragazza, nell’emozione del passo “strascicato” con la fanciulla palpitante che in silenzio si dichiarava! Che nel silenzio eloquente ci accettava!
***
Poi arrivarono “fabbricanti d’opinione” tipo il Barbiellini Amidei… Tipo due signore delle quali qui non intendo fare certo il nome, ma due “sobillatrici”; persone melliflue e lapidarie al tempo stesso, titolari di rubriche su testate ad alta tiratura. L’uno e le altre davano sempre ragione al “giovane”, alla “giovane”… Ma era una questione “di cassetta”… S’era scoperto il ‘business’ del “dialogo” coi giovani… Già ci s’era messa di mezzo la droga… Già ci s’era messo di mezzo il fallimento di numerosi genitori nati negli anni Trenta. La generazione “inutile”, “nociva”. La generazione “debole”; debole e, quindi, velleitaria. La generazione del superfluo, dell’appariscente; del “godimento immediato”, perciò scomposto, volgare, individualistico. I bambini lo sentono subito quando non sono seguiti, amati, compresi come dovrebbero essere… Quei bambini, quelle bambine, a vent’anni già consumavano droga a dismisura…
Erano così finite, in nome della “modernità” e d’una ricerca sempre maggiore del divertimento “liberatorio”, “sconfinato”, le festicciole da ballo (“troppo poco”…) della domenica in abitazioni private. Nemmeno questo la società italiana aveva saputo, o voluto, difendere, conservare. C’è qualcosa di molto flebile e labile in noi, e che solo a tratti, nel corso della nostra Storia, abbiamo saputo comprimere…
Morale: i ragazzi d’oggi non comunicano; tutt’al più, trasmettono. E questo non basta, non può bastare. Si scorge un gran vuoto intorno a loro. Essi non ne sono però consci… Ma nel loro subconscio s’agita, forse, un terremoto. Di cui non sanno, no, venire a capo. Il dramma è che del terremoto manco s’accorgono.