Locarno (Svizzera) — Se guardiamo un film come The Dirties del canadese Matt Johnson, fin dalle prime sequenze indoviniamo, immaginiamo che celato da qualche parte in quella paciosa e sonnacchiosa provincia americana, c'è una tragedia che incombe e prima o poi esploderà.
The Dirties è la storia di un'amicizia, quella di Matt e di Owen, due studenti liceali che amano passare il loro tempo libero girando film amatoriali e parlando della loro grande passione, il cinema appunto. A un certo punto, irrompono i Dirties, una banda di bulli che frequenta la loro scuola, e che per occupazione preferita, unica si puo' dire, hanno quella di umiliare e angariare i loro compagni. Anche Matt e Owen finiscono nel mirino dei Dirties; i due ragazzi reagiscono come possono e sanno: rifugiandosi nel mondo dei sogni e del fantastico, immaginando trame di vendette e sommarie giustizie, come fossero sceneggiature di film. Peccato che un giorno Matt dalla fiction passi alla realtà, la tragedia appunto: sulla canna di un fucile automatico, di quelli così diffusi e facili da acquistare nel paese dove potersi armare, difendere e tutelare le proprie libertà è considerato un intangibile diritto civile e costituzionale, che nessuna delle ricorrenti e assurde stragi "inspiegabili" riesce a mettere in discussione se non per i cinque minuti che seguono il rituale dibattito dopo la cronaca dell'accaduto.
Johnson si è diplomato in cinema alla York University di Toronto, non è alla sua prima prova filmica, anche se questo The Dirties è il suo primo lungometraggio, che lo vede oltre che regista, co-sceneggiatore, attore e tra i produttori. Il film è stato presentato al Slamdance Film Festival (nello stato dello Utah), dove ha vinto il Gran Premio della giuria per il miglior lungometraggio di narrazione. Il taglio del suo lavoro è solo apparentemente didascalico, forse c'è qualche sequenza di troppo e una maggiore severità nel montaggio avrebbe comportato un benefico alleggerimento del film, ma nel complesso si tratta di un'opera che ha una sua indubbia validità; il film non ha l'impatto provocatorio, ma anche irritante di un Michael Moore, ma questo è un pregio; e senza pretesa pedagogica mostra una realtà che si preferisce ignorare; o piuttosto: si ignora perchè troppi sono gli interessi economici in ballo che non si devono pregiudicare, e li si maschera con patriottarde rivendicazioni di libertà e sicurezza. E vale solo fino a un certo punto il dire che gli Stati Uniti sono tutto sommato un paese ancora giovane e di "frontiera", e i suoi abitanti per la maggior parte dei cow-boy.
Spostiamoci, ora, nella ancor piu' placida e sonnacchiosa Svizzera: la Svizzera che ha fatto della sua neutralità una bandiera e un valore; che riesce a passare indenne a ben due guerre mondiali; dove coabitano popolazioni che parlano lingue diverse, e di questo patchwork ha fatto e fa la sua forza…La Svizzera repubblica autenticamente federale, dove i referendum sono cosa normale, e che in tutto il mondo è conosciuta per orologi, formaggi e per l'essere comodo rifugio per chi ha grosse quantità di denaro che vuole mettere al riparo da occhi indiscreti. Questa Svizzera paciosa e sonnolenta è anche una colossale fabbrica d'armi, vendute e smerciate in tutto il mondo. E' anche il paese dove praticamente ogni famiglia ha un'arma, e spesso non è solo una rivoltella o una carabina. E' il paese che ha un rapporto ancestrale con le armi, e anche qui viene fatto scomodare il concetto di libertà individuale e diritto civile a propria difesa, lo si fa risalire addirittura al lontano 1290, all'epoca del leggendario Guglielmo Tell.
Una realtà indagata da David Induni, un regista nato in Argentina, origini italiane, studi in Spagna, una non breve parte della sua vita trascorsa alle Hawaii. Un bel patchwork anche lui, e non pago, negli ultimi tempi ha deciso di venire a studiare comunicazione a Lugano. Ed è dal soggiorno svizzero che nasce Heritage, un lavoro durato tre anni, che ha il taglio e il sapore dell'inchiesta giornalistica.
Induno indaga sul rapporto degli svizzeri con le armi, la loro passione per il tiro a segno, tramandata da padre in figlio; e raccoglie le "giustificazioni" che vengono date a questa passione. Ecco il patriota proclamare che esiste un diritto indiscutibile a difendere la madrepatria (ma minacciata da chi? Dall'Italia, dall'Austria?…); e davvero tenendo in casa un kalashikov si puo' resistere a un'aggressione missilistica che so?, americana o russa? Amenità, evidentemente. C'è poi il ragazzino che balbetta in modo incoerente che avere un'arma in casa significa assicurare la propria difesa da aggressori e malintenzionati: "Sanno che puoi fare loro del male, e cosi' non vengono a rubarti in casa". Ed è piuttosto ingenua, come affermazione, ma Induno ci mostra come sia diffusa e come in tanti ci credoao…
Heritage insomma ci conduce nel cuore della Confederazione, la Svizzera meno nota, fuori da Zurigo o Berna, Lugano o Losanna: nei piccoli centri, nelle campagne, in quei paesaggi da Heidi dove pero' in ogni casa e fattoria c'è un'arma; e ci fa toccare con mano quella che è una tradizione che non smette di affascinare. Naturalmente, i tanti discorsi, le tante parole, non servono a far dimenticare che dietro alla "tradizione" ci sono un'industria, degli interessi, un fiume di denaro.
Un solo dubbio, un interrogativo non si riesce a sciogliere: certo numericamente il popolo degli Stati Uniti è infinitamente superiore alle popolazioni svizzere: da una parte i circa 301 milioni ufficiali di abitanti disseminati in un vero e proprio continente; dall'altro poco piu' di otto milioni, in un territorio quindici volte piu' piccolo di quello del solo stato del Texas. Pero', vien da chiedersi, stante la quantità di armi in circolazione in entrambi i paesi, perchè negli Stati Uniti tante stragi e sparatorie frutto di "follia", e perchè non accade in Svizzera? Una ragione ci sarà, ma non si dica che è per gli orologi, la cioccolata o il formaggio…