C’era una volta negli anni settanta una città di nome New York. Ve la ricordate? Puzzava, ti ci facevi scippare, c’erano barboni e vagoni di metrò taggati da tutte le parti, ma era una città. A Times Square regnavano gli spacciatori e le puttane —non quelli multinazionali che ci stanno oggi ma quelli imprenditoriali. I bianchi scappati nei suburbs avevano lasciato spazio ad artisti, immigrati (dominicani, cinesi, sovietici) ed emarginati di tutte le salse. Fun City in breve non era ancora un centro commerciale per i figli di papà bensì una specie di zuppa primordiale pullulante di vitalità.
Nostalgie de la boue ? Sì, se per boue intendiamo Keith Haring e Robert Mapplethorpe, Patti Smith e la giovanissima Madonna, Yoko e John, Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, Laurie Anderson e gli svariati crazy ones che elessero dimora nella nostra città. E col cambiamento radicale di costumi fomentato dalla pillola anticoncezionale, dal boom dei voli di lungo tragitto, dall’uso di stupefacenti, dalla rivolta di Stonewall e da molte altre dinamiche ci si infiltrò anche un immigrato meno gradito, il virus dell'immunodeficienza umana (HIV). Un ottimo podcast di Radiolab racconta la caccia al patogeno, parente di un microbo emerso negli scimpanzé migliaia d’anni fa.
AIDS in New York: The First Five Years è una mostra della New-York Historical Society che va vista da chiunque dica di amare la Grande Mela, e soprattutto da quelli troppo giovani per ricordarsi dei primi efferatissimi anni della pandemia. L’AIDS fece strage di tutta una generazione, compresi Mapplethorpe e Haring, e al giorno d’oggi ha ucciso più di 100.000 newyorchesi.
Certo, è duro tornare nella memoria a quell’epoca quando nel 2013, con appositi farmaci, molte persone sieropositive vivono a lungo in discreta salute e alcune sarebbero state addirittura guarite dall'HIV. (Attenzione però a diffidare dei titoli trionfalistici e pure degli infami che danno l’AIDS per una malattia “inventata”.) Quest’anno per la prima volta un presidente degli Stati Uniti ha pronunciato la parola gay nel suo discorso inaugurale. Obama ha inoltre citato la rivolta di Stonewall accanto al congresso delle suffragette di Seneca Falls e alla marcia su Selma come un punto di riferimento indispensabile nella lotta per la giustizia nel nostro Paese.
Ma nel 1981, quando apparve sul New York Times un primo articolo su un cancro raro manifestatosi in una quarantina di omosessuali a New York e in California, non fu così. Nella Casa Bianca stava un commediante d’infimo rango eletto col sostegno degli integralisti cosiddetti “cristiani”—genere quelli che s’inteneriscono per i pastori ladri ed i preti stupratori di bambini ma che condannavano gli omosessuali sofferenti. “Gesù, smontato dalla barca, vide una gran folla; ne ebbe compassione e ne guarì gli ammalati”. A quanto pare molte Bibbie negli anni ottanta non riportavano quel passo.
Al St. Vincent’s Hospital del Greenwich Village, chiuso nel 2010 per fallimento, l’ostilità di molti amministratori cattolici dovette cedere alla dura necessità: sovente i morenti di AIDS erano tanti da essere disposti anche su lettighe nei corridoi. (Nel 2015 sul vecchio sito dell’ospedale dovrà sorgere un monumento ai defunti.) L’organizzazione Gay Men’s Health Crisis, fondata nel 1982, ebbe inizialmente difficoltà nel raccogliere fondi non per mancanza di sostenitori ma perché temevano le conseguenze dell’outing. Il sindaco Ed Koch (ritenuto un gay non dichiarato) rispose alla crisi in maniera tiepida.
E dalla Casa Bianca? Niente. Il bieco fantoccio in carica non pronunciò in pubblico la parola “AIDS” che nel 1987, quando secondo l’amFAR i morti di AIDS negli Stati Uniti erano più di 40.000. (Intendiamoci: 26.000 morti in Bosnia e Slobodan Milošević fu giustamente messo in galera per genocidio.) Non per caso l’ACT UP scelse come slogan Silenzio = Morte. La curatrice Jean S. Ashton spiega che la mostra della New-York Historical Society “documenta gli anni del silenzio”.
Karen di Claire Yaffa, senza data © The New-York Historical Society
Tra le materie esposte: cartelli per le saune e discoteche degli anni spensierati prima della pandemia; documenti e rapporti di medici, scienziati e servizi sanitari; manifesti e volantini sul sesso più sicuro; il diario dell’attivista e storico del cinema italo-americano Vito Russo, stroncato anche lui dall’AIDS nel 1990; trasmissioni televisive d’epoca; articoli e dichiarazioni di solidarietà dalla parte di Elizabeth Taylor e altri; testimonianze di odio, alcune da credenti in un Dio d’amore che definirono l’AIDS un castigo meritato; e foto di malati, di sfilate, di tossicodipendenti, di ricercatori, di disperati. Una sala intera è dedicata alle foto struggenti di Claire Yaffa di bambini malati di AIDS, molti abbandonati, all’Incarnation Children’s Center del Bronx.
La fine dell’inizio è il titolo dell’ultima parte della mostra. Ma la fine dell’AIDS rimane fuori portata. Qui a New York molti malati invecchiano e entrano in zone mediche e sociali inesplorate. Molti giovani negli USA, LGBT e non, danno per vinta la battaglia contro l’AIDS e si sbagliano. Nel 2010 a livello globale i sieropositivi erano 34 milioni e i morti di AIDS 1.8 milioni, oltre 30 milioni in toto dal 1981. Peggio ancora, i pregiudizi, i tabù e le scemenze molteplici di inizio millennio dilagano e sentenziano i negazionisti dell’AIDS come i militanti anti-vaccino, assassini tutti quanti.
Andate alla New-York Historical Society per ricordare, per riflettere e per mai più fare silenzio.
AIDS in New York: The First Five Years è in cartellone sino al 15 settembre alla New-York Historical Society, 170 Central Park West nel Manhattan. L’entrata è a prezzo libero il venerdì dalle 18,00 alle 20,00. Orari ed ulteriori informazioni: www.nyhistory.org o 212.873.3400.