Sempliciotto e… bugiardo: un personaggio che ha avuto molta fortuna sulle scene, soprattutto, del XVII-XVIII secolo. Corneille, ad esempio, ma anche il nostro Goldoni (“Il bugiardo”, appunto). Al primo s’è rifatto David Ives nel suo rifacimento di «The Liar» (“Le Menteur”, nell’originale francese). Una gustosa e spumeggiante versione, diretta da Paul Mullins, è attualmente sulle scene del Kirby della Drew University di Madison, NJ, fino al 29 luglio [tel. 973408-5600].
L’ha prodotta lo Shakespeare Theatre of New Jersey, diretto dall’italoamericana Bonnie J. Monte, e piacevolmente interpretata – tra gli altri – da Brian Cade (Dorante), Jane Pfitsch (Clarice), Maya Kazan (Lucrece), Clark Carmichael (Alcippe) e Katie Fabel (Isabelle/Sabine).
Rappresentata la prima volta nel 1644 ed ispirata essa stessa alla “Verdad sospechosa” dello spagnolo Juan Ruiz de Alarcón, la commedia ha per protagonista il giovane Dorante, studente passato alla carriera delle armi, che da Poitiers giunge a Parigi: per non apparire un provinciale passa di storditezza in storditezza, e quindi usa le bugie per cavarsi d’impaccio. La commedia di carattere (che, per il suo tempo, fu una primizia) assume anche varietà d’intreccio fra equivoci, scene brillanti, inganni. L’opera si distinse subito per l’originalità della psicologia, per la novità del dialogo, della comicità e delle trovate, per la schietta venezianità del suo colore.
Il giovane fa del falso la sua corazza e su di esso finisce col costruire un suo universo portando via via tutti gli altri ad averne parte. Ma, come si può, non riesce a mantenere intatta questa sua fittizia costruzione del reale anche se, in conclusione, la sua vicenda trova poi un lieto fine. Giunto nella capitale sulla Senna s’innamora all’istante di Clarice, che crede invece essere Lucrece. Clarice e Lucrece, per inciso, sono intime amiche. Da qui comincia tutta una serie di equivoci, di scambi d’identità, con situazioni che suscitano ilarità. Una trama, in fondo, divertente e adatta all’intera famiglia interpretata dall’alta società parigina che, in fondo in fondo, non è poi tanto diversa da quella in cui oggi ci troviamo a vivere.