Quando mi è stato chiesto di scrivere una recensione sullo spettacolo di Roberto Benigni "TuttoDante" che ha aperto martedì scorso a San Francisco la tournée americana del comico toscano, ho deciso di fare un po’ di ricerche.
Sono andato quindi a guardarmi su Youtube qualche filmato dello spettacolo sperando di capire in quale chiave, un campione di esuberanza verbale come Benigni, avrebbe riletto e reinterpretato il più sublime dei poeti italiani.
Quello che mi sono trovato di fronte in questa piccola ricerca videografica tuttavia è stato un Benigni molto diverso dal solito: serio, austero, completamente assorto nella sua interpretazione dei versi danteschi e poco incline agli efferverscenti eccessi satirici al quale ci ha abituato nella sua trentennale carriera.
In realtà mi sono anche reso conto che questa indagine preliminare sarebbe servita a poco dal momento che qui in America, il monologo di Benigni sarebbe stato quasi interamente in inglese e quindi, uno spettacolo quasi inedito.
Dico quasi, perché il primo esperimento in questo senso Benigni lo ha fatto il mese scorso con uno show al Royal Theatre di Londra dove, secondo la recensione pubblicata sul quotidiano britannico The Guardian, si respirava un’aria "da stadio".
A San Francisco tuttavia, mezz’ora prima dall’inizio dello spettacolo l’atmosfera sembrava ben diversa, con la maggior parte dei duemilacinquecento posti a sedere della Davies Symphony Hall quasi interamente vuoti.
Quella di riempire un teatro di quelle dimensioni (il più grande tra tutti quelli del tour americano di Benigni) è stata la grande sfida che l’organizzatore Gianni Succi ha accettato con l’allestimento dello spettacolo in una città come San Francisco dove la presenza della comunità italiana è tradizionalmente più frammentata rispetto a quella di altre aree urbane. La scommessa tuttavia ha dato i suoi frutti perché, come lo stesso Succi mi ha confermato, tutti i biglietti (2511) sono stati venduti e anzi, gli sono giunte almeno altre duecento richieste in eccesso dei posti disponibili.
Quella dell’impegno e del successo organizzativo di Gianni Succi è una storia nella storia della realizzazione di questa memorabile serata ma, martedi sera, il protagonista era il mattatore toscano.
Con tempi tutti italiani dunque, il teatro si è riempito solo poco prima dell’inizio dello show e, con l’arrivo del pubblico, anche l’atmosfera si è riscaldata come testimoniato da un paio di bandiere tricolori che per un attimo hanno trasformato un’ala della balconata superiore del teatro in una sorta di curva sud.
L’ingresso di Benigni sul palcoscenico, introdotto da una motivo musicale circense di stampo felliniano, è stato accolto da un’ovazione di pubblico degna di un concerto rock e, in risposta a questa calorosa accoglienza, il comico non si è risparmiato. Dopo un paio di giri in corsa sul palco, ha attaccato con un monologo che è continuato ininterrotto per circa due ore e mezza e che Benigni sembra aver recitato d’un fiato, senza pausa, con quell’enfasi che lo contraddistingue e, cosa impressionante, senza concedersi neanche un sorso d’acqua.
All’inizio, l’impressione è stata che la lettura del quinto canto dell’Inferno costituisse solo un prestesto e che Benigni non fosse in realtà interessato a riproporre in America la struttura dello spettacolo italiano. Questo perché per quasi un’ora, l’attore fiorentino ha fatto sbellicare dalle risa il pubblico presente con quella comicità vulcanica e inarrestabile tipica del suo repertorio tradizionale, dove ad ogni battuta se ne sovrappone un’altra e dove non si fa a tempo a riprendersi dagli effetti di una che ci si ritrova di nuovo piegati in due per la successiva.
In questa prima parte dello spettacolo, sono stati più frequenti i riferimenti alla vita politica e culturale italiana in generale e a Berlusconi in particolare, soprattutto attraverso il legame tra il quinto canto dantesco, che tratta dei lussuriosi, e le recenti disavventure personali del Presidente del Consiglio, accusato dalla moglie di concedersi "amicizie" femminili al limite del decoro. "Quando uno vuole corteggiare una ragazza la porta a cena fuori…Lui invece le offre il Ministero dell Difesa…" è stato il commento di Benigni a proposito.
Il comico tuttavia non ha esitato a rivolgere i suoi strali satirici anche contro sé stesso, ironizzando più volte sulla qualità del suo inglese ("If anybody is wondering when I’ll switch to english, you need to know…I am already speaking english…" e ancora "…I said a little prayer to ask God to help me with my english tonight but, since my prayer was in english, He did not understand me…").
Autoironia a parte, l’anglo-toscano di Benigni in realtà non è stato affatto male. Più che altro è il suo marcatissimo accento a conferire un irresistibile tono caricaturale alla sua parlata.
Dopo lo spettacolo, Benigni ha rivelato che ci teneva a rivolgersi ad un pubblico anglofono anche se molti tra gli italiani presenti forse avrebbero gradito maggiormente la versione originale con la sua inconfondibile "vulgata ruspante".
Ciò che ha stupito dell’attore, almeno in questa parte dello show, è stata la fisicità della sua presenza, il trasporto che è riuscito a comunicare al pubblico con una recitazione che sembra connessa in maniera immediata e diretta con la ressa di idee e di battute che sembrano affollarsi nella sua testa sovrapponendosi l’una con l’altra, quasi facendo a gara per uscire per prime.
Una fisicità che è apparsa persino più prodigiosa considerando che l’attore era in condizioni fisiche non ottimali in seguito al lungo viaggio e ad un leggero malore che lo ha colpito poche ore prima dello spettacolo addirittura rischiando di farlo saltare.
Dopo questa prima ora "pirotecnica" tuttavia, è apparso chiaro che Benigni non aveva affatto dimenticato la Divina Commedia e, proprio come il Virgilio dantesco, ha preso per mano il pubblico conducendolo gradualmente, verso la seconda parte dello spettacolo: quello della lettura commentata del quinto canto dell’Inferno.
Il Benigni comico ha lasciato il posto al Benigni attore e il giullare è diventato poeta regalando agli italiani in grado di apprezzarla, l’incomparabile musicalità dei versi duecenteschi, mentre gli americani in sala si sono dovuti accontentare del testo tradotto su due schermi posti ai lati del palco.
È stato un profondo cambiamento non solo tematico ma anche e soprattutto di tono in cui l’attore è riuscito magistralmente a creare un atmosfera più austera, più attenta che ha fatto subito chiarezza sul fatto che, per Benigni, con Dante non si scherza.
Il ricorso alle battute si è fatto sempre più raro. Nel descrivere la storia di Semiramide ad esempio, la regina babilonese che per assecondare i suoi istinti lussuriosi li leggittimò facendone la legge del suo regno, in molti si sarebbero aspettati che Benigni cogliesse al volo il parallelo con il "Berlusconi-faraone d’Italia" che non esita a farsi leggi su misura per assecondare i propri interessi e aggirare i suoi guai giudiziari.
Invece lo spettacolo ha preso un corso completamente diverso, meno comico e più lirico raggiungendo il suo apice nella storia di Paolo e Francesca che ha sancito il passaggio completo e così poco americano, dalla levità della commedia iniziale alla melanconia tragica del finale.
L’ultimo atto è stata una rilettura integrale ed ininterrotta dell’intero canto, un momento in cui il silenzio in sala si è fatto palpabile e quando Benigni, lacrime agli occhi, ha recitato gli ultimi versi, il pubblico è balzato all’impiedi conferendo all’attore toscano una lunga e meritata ovazione grato per questo rinnovato legame con uno tra i pezzi più nobili ed elevati della nostra storia culturale purtroppo ormai rintracciabili solo in un passato remoto.