Alla 66sima edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea, uno degli appuntamenti più attesi si è svolto il 22 settembre all’Arsenale – Teatro alle Tese, con la prima assoluta dell’opera Çiatu del compositore Paolo Buonvino. Inizialmente assistente musicale di Franco Battiato, il compositore siciliano si è da sempre dedicato al teatro musicale, debuttando nel 1997 come compositore di colonne sonore, componendo le musiche del film televisivo La Piovra 8 – Lo scandalo di Giacomo Battiato.
Si sono susseguiti da lì una serie di successi, in collaborazione con importanti registi del panorama nazionale. Premio Rota 1999 alla 56ª Mostra Internazionale di Venezia per le musiche di Come te nessuno mai di Gabriele Muccino, Premio per la migliore colonna sonora al Festival International de Luchon (2002) con il film Le jeune Casanova di Giacomo Battiato, David di Donatello nel 2008 per il miglior musicista e Nastro d’Argento alla migliore colonna sonora per le musiche del film Caos calmo diretto da Antonello Grimaldi. Nel 2009 riceve ancora un Nastro d’argento per il film Italians di Giovanni Veronesi e nel 2016 firma la colonna sonora della serie di successo I Medici, che vede la partecipazione di Skin. Artista versatile, che va oltre i tradizionali schemi musicali, nel 2021 dà vita a Taranta Reimagined, progetto discografico di contaminazione tra musica popolare e musica elettronica, prodotto dalla Sugar Music e distribuito dalla Universal, che vede le interpretazioni di Jovanotti, Mahmood, Gianna Nannini e Diodato, registrate durante l’edizione 2020 della Notte della Taranta.
La Biennale Musica 2022 di Venezia gli commissiona un concerto scenico intitolato Çiatu per vocalist, ensemble strumentale, disklavier, voci registrate e live electronics, tratto da frammenti letterari e documentari sul concetto di çiatu, respiro in siciliano, basato sull’esperienza di un respiro collettivo come suono e come gesto vitale per ritrovare la purezza primigenia. Il compositore ci racconta questo lavoro, la cui struttura scenica è stata realizzata in collaborazione con Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa della Maison Dior, ispirata a lavori dell’artista Irma Blank.
Cosa significa il termine dialettale çiatu?
“Significa fiato, respiro, anche se esiste anche l’espressione “çiatu mio”, come a significare “anima mia”, “amore mio”. Ma çiatu per un siciliano non è solo questo: è un termine estremamente toccante, che implica dimensioni diverse, a partire dal respiro, che è la funzione vitale primaria per gli esseri umani, ma indica anche un “respiro” dell’anima altrettanto vitale per la nostra esistenza. Con quest’opera, che mi è stata commissionata dalla Biennale Musica di Venezia, ho colto l’occasione per occuparmi di qualcosa che mi sta molto a cuore in questo momento della mia vita. Il concetto è che siamo costantemente alla ricerca di qualcosa al di fuori di noi, ma in realtà si tratta di scoprire qual è la nostra forma, e qual è la nostra sostanza all’interno di questa grande costruzione che è l’esistenza. Questo processo, che avviene per lo più attraverso le esperienze, dura tutta una vita”.
Bisognerebbe rivolgere lo sguardo alla propria interiorità…
“Esatto. C’è una frase dell’Apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo testamento, che mi piace citare spesso: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Non c’è bisogno di cercare la felicità in cose nuove da possedere, ma di osservare con uno sguardo rinnovato ciò che abbiamo già”.
Vale anche per la musica? È stato già scritto tutto o c’è ancora qualcosa di nuovo da creare?
“Per la musica, come per tutte le arti, bisogna distinguere tra forma e sostanza. Può darsi che tutte le forme siano state esplorate, anche se potranno essercene di nuove, ma poiché ognuno di noi è unico, non tutte le sostanze sono state espresse, essendo potenzialmente infinite. Può esserci solo un rischio: l’omologazione, che si ha quando tendiamo a cercare di esprimere mode, cliché piuttosto che ciò che veramente siamo, la nostra vera sostanza, l’unica cosa che può renderci veramente felici. Quando accade questo, la nostra specificità, l’infinita varietà, si viene a perdere e il prodotto finisce per essere solo una copia sbiadita di qualcosa di già esistente, ma senza una vera energia”.
Nella musica, cosa impedisce la libertà creativa?
“Non saprei esattamente… io mi sento molto libero. Il pericolo che intravedo è quello di assoggettarsi al desiderio delle mode, ma soprattutto di non prestare la giusta attenzione a scavare dentro se stessi per poi esprimere questa dimensione personale in musica”.
Non trova che in quest’epoca la ricerca del consenso condizioni particolarmente la creazione artistica?
“Certamente, e condiziona sia chi crea, che chi fruisce, come in un rapporto di dipendenza. Ma credo che pian piano ci si possa rendere conto che si tratta di un inganno. La ricerca del consenso in una certa misura è naturale: cerchi di stare con persone con cui condividi idee e pensieri, per cui il consenso è automatico. La questione si complica quando cerchi solo consenso e “tradisci” ciò che sei, e non accetti il rischio della diversità. È un inganno che appartiene a quella serie di inganni che si perpetrano da secoli e che ritroviamo in tutte le epoche pressoché identico. Le faccio un esempio: fra i testi che ho utilizzato per la mia opera, c’è un testo cinese del IV secolo a.c. che si intitola Neiye, che significa proprio “lavoro dentro”. Si tratta di un testo sul quale si sono fondati successivamente gli scritti taoisti. Sono 24 versetti, e uno di questi recita così:
Quando allarghi la tua mente, la lasci andare,
Quando rilassi il tuo respiro vitale e lo espandi,
Quando il tuo corpo è calmo e immobile:
E puoi mantenere l’Uno e scartare la miriade
di disturbi.
Vedrai il profitto e non ne sarai attratto,
Vedrai il male e non ne sarai spaventato.
Rilassato, ma acutamente sensibile,
Nella solitudine ti diletterai nella tua stessa persona.
Questo si chiama “girare il respiro vitale”:
I tuoi pensieri e le tue azioni sembrano celesti
È un testo di 2600 anni fa, ma è attualissimo, perché la natura dell’uomo è simile, e i meccanismi da cui ci facciamo ingannare, a ben vedere, sono sempre gli stessi. Abbiamo fatto enormi progressi con la tecnologia, ma non siamo stati altrettanto bravi nel guardarci dentro, nonostante sia un’esigenza innata nell’uomo”.
Qual è il suo strumento di ricerca interiore?
“Ho diversi strumenti: il respiro consapevole, la preghiera, la meditazione e altri ancora. In realtà, ad un certo livello tutto può diventare strumento di ricerca interiore. La cosa importante è che questa ricerca porti alla semplicità dell’essere veri. Più si tenta di far combaciare ciò che si è con quel che si fa, più si è felici. Il respiro consapevole, per esempio, può restituirci una purezza primordiale e depurare dai sostrati dell’esperienza che ci allontanano dalla nostra vera essenza, che secondo me è divina. Mi piace ricordare una frase del mio caro amico Battiato contenuta nel brano Le sacre sinfonie del tempo: “siamo angeli caduti in terra dall’eterno senza più memoria”. Respirare è come restituire un po’ di memoria di questo essere angeli, cioè semplici, puri, senza steccati interiori che le esperienze, specialmente quelle negative, possono generare. A volte, inoltre, la frenesia del tempo quotidiano può distoglierci da questa ricerca, che però è indispensabile, se si vogliono produrre dei cambiamenti nella propria esistenza”.
L’umanità a che punto sta del cammino?
“Ci sono alti e bassi, come nelle esperienze personali. A volte sembra di precipitare, ma dobbiamo ricordare che è dal basso che si risale, e che ogni esperienza insegna, e anche quando ci sentiamo persi, dobbiamo richiamare quella condizione primordiale e farla agire in sintonia con tutto il resto. Così si diventa molto più forti, e un nostro passo ci sembrerà il passo di un gigante. Non si è mai soli, siamo collegati a un tutto molto più grande di noi”.
Parliamo di come si sviluppa Çiatu…
Il lavoro è idealmente diviso in tre parti, anche se non ha interruzioni. La prima parte rappresenta la purezza primordiale, che viene espressa con un disegno molto semplice, quasi bambino, del pianoforte, che man mano si arricchisce, non solo di altra strumentazione, ma anche di elementi estranei al consueto linguaggio musicale. Questo arricchimento è anche qualcosa che distorce, e sta a rappresentare le esperienze. In questa prima parte è presente anche un collage di telegiornali da tutto il mondo: il bombardamento delle notizie che ci assale ogni giorno senza che noi si riesca a contenere questa miriade di informazioni che spesso ci confondono o ci costringono a banalizzare tutto ciò che accade nel mondo o, peggio, rischiano di farci diventare degli automi. Eppure, nonostante il caos, in qualche sussulto della nostra anima, riusciamo in alcuni momenti a percepire che c’è qualcosa d’altro, di più semplice e più autentico, che spesso definiamo con la parola Amore”.
Cosa accade dopo?
“Seguendo le indicazioni contenute nel versetto del Neiye che prima richiamavo, si cominciano a cogliere tutte le distrazioni, i falsi miti e i miraggi che si rivelano inconsistenti: l’ego, il potere, il denaro, l’avidità. Dunque in che modo si possono davvero trovare la pace, l’amore e una dimensione di reale gioia se non cercandoli innanzitutto dentro di noi? La pace è come un virus: te lo devi prendere tu! Solo così può contagiare gli altri. Non basta parlarne. Come il Coronavirus è riuscito a fare il giro del mondo in breve tempo, anche i “virus” della pace o dell’amore possono farlo”.
Ha così tanta fiducia nell’umanità?
“È una questione fisica. Molti testi dell’antica saggezza filosofica e religiosa fanno riferimento a questo. Si tratta di essere felici amando: questo è l’obiettivo ultimo a cui tendere: è la proposta che, nella seconda parte del lavoro, faccio a me stesso e, in secondo luogo, a chi voglia accoglierla”.
La musica come si inserisce in questo processo?
“La musica è essa stessa respiro. La partitura imprime un ritmo al respiro di chi ascolta, e questo ritmo restituisce la purezza del respiro primordiale. È come se avessimo due tipi di polmone: uno fisico e uno dell’anima; si può respirare anche interiormente a pieni polmoni e riempirsi di qualcosa di superiore. Ricordiamo la bellissima etimologia della parola “inspirazione”: instillare nell’animo un affetto, un pensiero, un disegno che arriva da qualcosa che è al di sopra di noi. In questo senso la musica, intesa come arte delle Muse, rimanda a una dimensione dello spirito, a patto che ci si riporti alla propria essenza e ci si colleghi con Dio, col Tutto o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare”.
Qual è la disposizione d’animo che dovrebbe prodursi?
“Subentra una gioia purissima che ho rappresentato nell’opera in forma di condivisione fra i popoli. Gli stessi interpreti appartengono a culture diverse: tra i cantanti, oltre a Rossella Ruini, soprano italiano da sempre interessato alla ricerca vocale, sono presenti Badara Seck, un cantante senegalese appartenente a una famiglia di griot, una sorta di musicoterapeuta-cantastorie, e il vocalist Faisal Taher, che è palestinese-siculo, la cui voce è un ponte di dialogo tra culture e religioni del Mediterraneo”.
Nella terza parte del lavoro c’è infatti una sorta di preghiera comunitaria…
“Sono convinto che, se si riesce ad arrivare al nucleo di se stessi, accettandosi e amandosi così come si è, pur con tutti i limiti, non si può non accettare e non voler bene agli altri. Questa condivisione empatica permette con più facilità di ricondursi al Tutto. Per arrivare a questo ci vuole silenzio, attenzione, meditazione. Tutto sta nella capacità di ascoltare la voce del bambino interiore che è in noi e che ci parla piano, in una sorta di preghiera silenziosa”.
Lei è siciliano. Possiamo udire nell’opera echi della sua terra?
“Senz’altro. Intendo questo lavoro, in un certo senso, come un’ode a una certa Sicilia. La Sicilia di Federico II, in particolare, che accoglie tante lingue e tante culture di diversa derivazione e trova in esse ricchezza e non timore del diverso. Non è un caso che da questa varietà culturale sia nata la “scuola siciliana”, la cui produzione poetica costituisce la prima produzione lirica in volgare italiano. Ma, a ben vedere, molti altri elementi della nostra cultura, come il cibo, o anche i numeri, derivano da culture lontane”.
Cosa accade dal punto di vista scenico?
“Sul palco è presente una struttura – realizzata con la collaborazione di Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa di Dior – su cui viene proiettata la serie di lavori Radical Writings di Irma Blank realizzati tra il 1983 e il 1996 che indagano il rapporto tra il segno e il tempo: lunghi tratti di colore stesi col pennello sulla tela. Questa installazione si anima come se respirasse essa stessa. Le opere sono basate sulla scrittura asemantica, in cui il segno, privo di ogni significato reale, rimanda a uno stadio primordiale dell’essere, alle radici stesse di un io indifferenziato, pre-linguistico e pre-semantico. Ogni tratto corrisponde alla lunghezza del respiro che accompagna il gesto della mano dell’artista, che mentre dipingeva compiva una sorta di meditazione. Questi respiri sono stati registrati, e io li ho utilizzati in uno dei brani”.
E poi ci sono gli strumentisti sul palco, come in un concerto…
“Sì, oltre ai vocalist è presente un quintetto d’archi e tre fiati, coordinati da un direttore straordinario che è Tonino Battista. Ci sono dei momenti nell’opera in cui tutti gli strumentisti, me compreso al pianoforte e live electronics, prestano un’attenzione specifica al respiro: ho chiesto espressamente ai musicisti che questa potesse essere un’opportunità per noi per creare una condivisione più ampia, sempre a partire dal respiro individuale. Il respiro, inteso come atto esistenziale primario e involontario, ci rende tutti identici a prescindere da geografie, religioni ed epoche diverse, e si traduce in suoni e timbri differenti, con voci e strumenti appartenenti a diverse culture che trasformano tale gesto essenziale in un racconto della propria esistenza”
È prevista un’interazione attiva del pubblico?
“Lo fa nella misura in cui si immerge, attraverso la respirazione consapevole, nella musica, sperimentandone l’effetto durante l’ascolto. Io stesso faccio, all’interno dell’opera, una performance in cui compio un esercizio di respirazione, indicando a me stesso la possibilità di tornare, attraverso il respiro, alla la purezza dell’essere, invitando il pubblico a spogliarsi di ogni elemento di “disturbo”, sensi di colpa, senso di inadeguatezza e falsi miti cui accennavo prima, e in generale da tutto il superfluo, per tornare alla propria nuda essenza”.
Nella strumentazione interviene anche l’elettronica con tre disklavier Yamaha e il suo live electronics. Qual è il significato di questi inserti?
“Stanno a significare che le macchine non sono contro l’uomo, e l’elettronica interviene apportando timbri e mondi nuovi che arricchiscono il linguaggio musicale. Come accennavo prima, la forma prevede l’uso di strumenti, che sono il mezzo, ma la sostanza non ha niente a che fare: la sostanza consiste nel fatto che chi fa la musica riesca a esternare veramente qualcosa che gli appartiene. E ciò che si è, è frutto di una ricerca interiore, non è così facilmente percepibile. Io stesso mi considero costantemente in cammino”.