Avrebbero potuto portare una canzone strappalacrime, triste, malinconica. Del resto, visto il contesto geopolitico, ne avrebbero avuto tutto il diritto. E invece la Kalush Orchestra sul palco dell’Eurovision canta “Stefania”, un inno alle mamme ucraine con un beat moderno e convincente, passi di break dance con accenni di rime rap e l’immancabile flauto tradizionale che già avevamo sentito protagonista nel brano ucraino dell’Eurovision dell’anno scorso ospitato a Rotterdam.
La scenografia viene riempita dagli occhi di una mamma ucraina sui videowall alle spalle della performance. E poi quella frase, quel verso, pulito e semplice, che non ti aspetti. “Troveremo la strada di casa anche se le strade sono distrutte”.
È l’Ucraina a vincere la 66ª edizione dell’Eurovision Song Contest, ospitata nel PalaOlimpico di Torino. Una vittoria annunciata, la loro, che nemmeno il tentativo di attacco hacker russo per bloccare il conteggio dei voti è riuscito ad ostacolare. Durante la serata della finale non è mancato l’appello del Presidente Zelensky, che ha invitato gli europei ad esprimersi.

La vittoria, resa possibile dal voto del pubblico, ha scavalcato il Regno Unito, secondo. Per un attimo si era pensato che una Svezia in particolare forma avrebbe potuto portar via lo scettro di una vittoria fin troppo prevedibile. Il popolo di Twitter aveva persino sperato in una replica della vittoria italiana dell’anno scorso dei Maneskin, mandando in trending topic l’hashtag “Non succede, ma se succede”.
Non è successo. Mahmood e Blanco con la loro “Brividi” si posizionano sesti, penalizzati da una stonatura persistente in tutta la prima parte del brano. Se Mahmood è reduce dalla tournèe di promozione europea che l’ha portato a fare sold out in quasi tutti i concerti in giro per l’Europa, Blanco ha risentito dell’emozione e della responsabilità che non l’hanno posto allo stesso livello del collega di duetto. Peccato, ma fare meglio di Sanremo era difficile.

Promossi a pieni voti, invece, i tre presentatori Made in Italy: Laura Pausini, Alessandro Cattelan e Mika. Se la Pausini si è rivelata pian piano, arrivando a splendere nell’ultima sera anche grazie a interventi cantati, Cattelan si è sentito da subito a casa, come se quel palco internazionale fosse una promessa che gli spettava. Mika, con il suo francese, ha reso la manifestazione più internazionale, senza personalismi e senza battute fuori luogo. Certo, in ottica di una manifestazione che mette al primo posto la diversità, la scelta dei presentatori avrebbe comunque potuto essere più diversificata. Si è preferito invece proporre un usato sicuro e garantito, per non rischiare troppo.

25 Paesi in gara, 12 lingue diverse nei testi delle canzoni, una manifestazione tra le più seguite al mondo, ma sull’Italia l’Eurovision continua a fare poca presa. Lo si guarda con un misto di stupore un po’ da lontano, quasi ad aspettarsi una stranezza da qualche paese di cui ridere. Eppure l’Eurovision ha diversi insegnamenti da lasciare in eredità alla televisione italiana, che l’ha ospitato quest’anno ma che chissà quando lo rivedrà.

1- Lunghezza non è sinonimo di qualità: non serve che uno show di punta in prima serata, come Sanremo, duri tutte le sere fino all’una di notte. Si può terminare anche alle 23.15, come nel caso delle semifinali di martedì e giovedì. Non ne perde nessuno, anzi. In un’epoca di social dove un video in media non viene mai visto più di un minuto, per quale motivo dovremmo rimanere incollati a una diretta lunga più di 4 ore?
2- Essere vestiti sportivi non è sinonimo di sciatteria. Avete mai visto una cantante italiana sul palco dell’Ariston in sneakers? Neanch’io. Ora invece riguardate in quante all’Eurovision hanno cantato scalze o con le scarpe da ginnastica. Si sono visti anche tanti tacchi e stivaloni a mezza coscia. Il motto pare essere: “sii te stesso, vai benissimo come vuoi essere”.
3- Puntualità vince su personificazione del conduttore. Diciamolo: che ci fossero stati Cattelan, Mika, Pausini o altri tre, di poco sarebbe cambiato. La presentazione non è ad personam ma piuttosto ad minutom. Non sono mai stati in ritardo rispetto ai tempi previsti, una precisione pazzesca di aderenza alla scaletta senza battute o dispersioni.
Si può cantare bene anche dal vivo: a parte i nostri Mahmood e Blanco, di stonature se ne sono sentite poche, tanti gli acuti perfetti.
4- Un po’ di trash ci salverà. Coreografie bellissime, un palco che piove piccole cascate d’acqua, luci, costumi sfarzosi, musiche allegre da ballare. Viviamo tempi difficili e lasciare che ad alleggerirci sia la musica non è un crimine. Come ci hanno insegnato proprio gli ucraini della Kalush Orchestra.