Dalla Spagna, dove fare musica in sicurezza con la pandemia in corso è possibile, giungono echi danteschi in musica. Il 25 marzo scorso, in occasione del Dantedì, giorno in cui gli studiosi riconoscono convenzionalmente l’inizio del viaggio letterario di Dante nell’Aldilà, nell’anno delle celebrazioni per il 700° anniversario della morte del Sommo Poeta, è stata eseguita, presso la Sala de Cámera dell’Auditorio Nacional de Música di Madrid, l’opera La Vita Nuova di Nicola Piovani. Su iniziativa dell’Istituto Italiano di Cultura e sotto l’egida dell’Ambasciata d’Italia, la Cantata per voce recitante, soprano e piccola orchestra ispirata ai sonetti de La Vita Nuova dantesca, è stata interpretata dal soprano Valentina Varriale e dall’ORCAM, Orquesta de la Comunidad de Madrid, con la voce narrante del giovane attore Matteo Gatta. In un momento duro per gli artisti, sfiancati da più di un anno di privazione della loro linfa vitale, la possibilità di esibirsi in pubblico, il musicista, Premio Oscar nel 1999 per la colonna sonora del film La Vita è Bella di Roberto Benigni, racconta a La Voce di New York la sua esperienza nel segno letterario di Dante.
Perché ha scelto proprio La Vita Nuova di Dante Alighieri come fonte di ispirazione per il suo lavoro?
“La poesia di Dante Alighieri della Commedia, i magnifici endecasillabi, le maestose terzine, contengono una musicalità talmente alta, potente e conclusa che qualunque tentativo di metterli in musica sarebbe diminutivo, quasi offensivo. Il libro de La Vita Nuova invece è altra cosa: è una sorta di diario che si svolge in una struttura narrativa ancor oggi sconvolgente, uno spiazzante prosimetro, un misto di sonetti, versi sciolti e prosa”.
Ci spiega in che modo ha deciso di utilizzare la poesia dantesca all’interno della sua Cantata?
“Non si tratta di una vera e propria messa in musica dei versi danteschi. Nella Cantata che ho scritto i versi dei sonetti non vengono mai cantati, sono recitati su un fondo sommesso, fisso, sospeso dell’orchestra, che scandisce il susseguirsi delle quartine e delle terzine. Gli unici versi che vengono cantati sono quelli che Dante indica specificamente come Canzone e Ballata, rime destinate al canto”.
Attraverso il suo lavoro musicale, cosa intende trasmettere dell’eredità dello spirito dantesco a un’umanità provata dalla pandemia?
“L’unica cosa che ho provato a trasmettere al pubblico è la commozione grande che mi dà leggere oggi questo libro sull’Amore, scritto autobiograficamente da un ragazzo del Duecento fra i diciotto e i ventisei anni, più di otto secoli fa. Ho provato a raccontare in musica la modernità di questa emozione”.
Qual è la valenza espressiva del connubio, a lei molto caro, tra musica e parola?
“La valenza espressiva della combinazione fra musica e parola in uno spazio teatrale è un terreno fertilissimo, ancora tutto da sperimentare: l’uso della canzone, il melologo, la voce recitante, il parlato ritmico… gli strumenti espressivi da scoprire e combinare sono ancora tanti. È un ambito di ricerca che mi affascina molto”.
Ne La Vita Nuova Dante canta l’Amore, da quello terreno a quello inteso come contemplazione spirituale. Pensa che l’amore come mezzo di elevazione verso un’“intelligenza nova”, la Sapienza, possa avere oggi un potere salvifico?
“È vero, ma Dante canta l’Amore anche come qualcosa di spaventoso: nel primo sonetto de La Vita Nuova, Dante racconta un sogno che, a suo dire, “fa orrore”, in cui Amore tiene su un braccio il cuore di Dante e sull’altro Beatrice che “si pasce” di quel cuore, lo divora. E anche in un altro momento in versi, descrive l’Amore come qualcosa che va ad alloggiare in un cuore, impossessandone e rimanendoci “Talvolta poca e tal lunga stagione”, come un capriccio, come una malattia transitoria”.
E’ reduce dall’esecuzione de La Vita Nuova a Madrid. Com’è stato riprendere a esibirsi dal vivo?
“Un potente regalo del cielo che mi ha permesso di interrompere un’astinenza dolorosa. Fatico a stare senza fare musica dal vivo e senza andare ad assistere ai concerti come spettatore. Mi manca il Teatro, come spettatore e come teatrante, e mi auguro che presto passi questa pestilenza; la quale, come le pestilenze dei secoli scorsi, sta mortificando la vita teatrale, di chi lo fa con passione e di chi con passione lo va a vedere. Ma il Teatro risorgerà, come è risorto nel passato”.
Quando tutto questo sarà finito, pensa che si sentirà di più il bisogno dell’arte e la figura dell’artista sarà maggiormente valorizzata nella società?
“Cosa accadrà alla fine di questo incubo è impossibile dire. Ne usciremo cambiati, in parte ansiosi di ricominciare, in parte forse arrugginiti; ci troveremo in un mondo nuovo, diverso, sulle prime indecifrabile; in parte saremo migliorati, in parte… chissà?”.
Cosa ha perso l’umanità durante il buio dell’arte e della cultura?
“Con questa pandemia l’umanità ha perso tante cose importanti, primarie: le vite innanzitutto, il lavoro, il viaggio, la ritualità pubblica. E ha perso il Teatro. Quel momento sociale in cui le persone si accomunano emotivamente, in una ritualità fatta di carne e ossa”.
Come si prepara alla ripresa dell’attività a pieno regime? Nuovi progetti?
“Sto lavorando a un’Opera di struttura classica, col tenore, il soprano, il mezzo soprano, il baritono, il basso, il coro, l’orchestra, le scene e i costumi. Se il cielo ci assiste, dovrebbe andare in scena a gennaio 2022, a Trieste. Con la sala, spero, affollata, assembrata. Senza assembramento non ci può essere vero teatro”.