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March 15, 2021
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Megan Thee Stallion e Beyoncé: le regine black dei Grammy 2021

Le due texane che come poche rappresentano il recente passato, il presente e il futuro della black music hanno ritirato insieme il premio

Piero MerolabyPiero Merola
Time: 4 mins read

Quando persino Billie Eilish, vincitrice del prestigioso premio “Record of the Year” con “Everything I wanted”  dichiara sul palco che avresti meritato di vincere tu, c’è davvero poco altro da discutere. Alla 63esima edizione dei Grammy ha trionfato Megan Thee Stallion, una nostra ormai antica scommessa che vi avevamo presentato quando in Italia era ancora un nome per pochissimi affezionati e che anche negli States aveva ancora tutto da dimostrare.

La ventiseienne Megan Jovon Ruth Pete ha conquistato il premio di miglior artista, e poi le statuette per migliore canzone rap e migliore performance rap grazie al brano superfavorito (anche secondo Billie Eilish che aveva già preparato un discorso per celebrarlo): Savage nella sua versione remix dove Megan è affiancata dalla sua musa ispiratrice e illustre concittadina Beyoncé.

Le due texane che come poche rappresentano il recente passato, il presente e il futuro della black music hanno ritirato insieme il premio e Megan non è riuscita a trattenere l’emozione. Come tante sue coetanee da piccola era una fan delle Destiny’s Child e ringraziando la sua idola che troneggiava sul palco al suo fianco ha ammesso che sua mamma per darle forza le diceva spesso di fare quello che Beyoncé farebbe al posto suo. E, anche se la strada è ancora lunga, dopo questa serata magica di Los Angeles, sarebbe difficile negare il contrario, se consideriamo che l’ultima rapper a essere premiata come miglior artista emergente era stata un’altra icona R&B, Lauryn Hill, nel 1999.

Senza album all’attivo o singoli da classifica la stessa Knowles seduta in prima fila con il compiaciuto consorte Jay Z, entrambi all black dalla mascherina all’outfit, ha conquistato la scena per un nuovo record: è la prima donna ad aver portato a casa ventotto Grammy. Il primo lo conquistò proprio ai tempi delle Destiny’s Child nel 2001 per la leggendaria Say My Name.

Il record era detenuto da Alison Krauss (27 grammy), mentre quello assoluto tuttora detenuto dal compositore ungherese George Solti (31 grammy), dopo la scorsa notte è meno lontano grazie alle vittorie nella categoria “Best R&B Performance” con la traccia Black Parade e nella categoria Best Music Video grazie al suggestivo e intenso Brown Skin Girl che peraltro regala una vittoria storica alla seconda più giovane vincitrice di un Grammy, la figlia di nove anni Blue Ivy che figura nei credits della canzone realizzata per la soundtrack del Re Leone accanto con il rapper guyanese SAINt JHN e l’artista nigeriano WizKid.

Nella prima – e si spera ultima – edizione COVID dei Grammy uno degli aspetti più inediti e intriganti è legato al cosmopolitismo sempre più accentuato che ben rappresenta le contaminazioni globali del pop americano e anglosassone. Non a caso è la prima edizione dove il limitante e approssimativo naming della categoria Best World Music Album si trasforma in “Best Global Music”. Così come “Best Urban Contemporary Album” diventa “Best Progressive R&B Album” (premio andato al visionario Thundercat) dando nella definizione un riconoscimento giustamente innovativo e contemporaneo al sound delle periferie delle metropoli internazionali. Continuare a etichettarlo “world” o “urban” rappresentava una superiorità e una centralità occidentale che è ormai superata da anni.

Le vittorie dell’icona del nuovo afrobeat nigeriano Burna Boy, del producer haitiano adottato da Montreal, Kaytranada (“Best Electronic/Dance Album) e soprattutto di uno degli artisti più generazionali dell’America ispanica, il portoricano Bad Bunny (anche la sua esibizione è stata uno degli highlight della serata) sono due segnali che mostrano l’allineamento dei Grammy sui trend globali, dove per globo da tempo non si intende più l’asse atlantico tra Stati Uniti ed Europa.

Il secondo aspetto, evidente già da qualche edizione, è quello dello strapotere femminile, a partire dalle esibizioni praticamente perfette di Dua Lipa, Doja Cat, Hai e del duo del tormentone WAP (Cardi B e la stessa Megan Thee Stallion), passando per altri record come quello di Taylor Swift che grazie al successo di “folklore”, prodotto con i guru indie Jack Antonoff e Aaron Dessner, è diventata la prima donna a vincere per la terza volta il Grammy per il miglior album.

Fiona Apple, che aveva preannunciato la sua assenza perché, ormai astemia dopo vecchi problemi con l’alcol, non sarebbe riuscita a resistere alla cerimonia da sobria, ha vinto due premi: “Best Rock Performance” con Shameika e il meritatissimo “Best alternative music album” (un retaggio anni 90 solo nel naming) per il disco del 2020 più celebrato dalla critica, Fetch The Bolt Cutters.

Gabriella Sarmiento Wilson aka H.E.R.., un’altra afro-americana (di madre filippina, e cresciuta in California), un anno più giovane di Megan Thee Stallion, grazie a I Can’t Breathe, ha portato a casa a sorpresa l’ambitissimo Grammy per la canzone dell’anno battendo Beyoncé, Post Malone, Dua Lipa (per lei “Best Pop Vocal Album”) e l’altra nostra scommessa vincente Billie Eilish che per il “Record of the Year” aveva a sua volta prevalso su Beyoncé, Black Pumas, DaBaby, Doja Cat, Dua Lipa, Post Malone e la già citata Savage.

Nelle categorie per i migliori album rock (The Strokes), rap (NAS) e R&B (John Legend) vince invece il passato, come se fosse ormai lo stesso formato “album” a essere considerato vecchio rispetto alle dinamiche legate allo streaming.
Il messaggio manifesto per titoli e copertine, a un anno dalle morti di Breonna Tyler e George Floyd che hanno incendiato l’America l’ha lasciato neanche a dirlo Beyoncé:

“Ho voluto risollevare, incoraggiare, celebrare tutte le regine e tutti i re neri che continuano a ispirare me e il mondo intero”.

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Piero Merola

Piero Merola

Laureato in Relazioni Internazionali, lavoro come consulente di comunicazione, pubbliche relazioni e nuovi media. All'interesse per la storia e la politica americana, ho sempre unito quello per la musica. Dopo uno stage in Ambasciata Italiana a Washington, ho seguito per America 24 le presidenziali del 2012, e oggi scrivo per Rivista - Il Mulino. Editor del magazine online Kalporz, dal 2006 scrivo recensioni, interviste e report da ogni dove. Collaboro come ufficio stampa e copywriter con etichette, agenzie di booking, eventi e festival. In passato ho lavorato per festival estivi come Beaches Brew e Ortigia Sound System, oggi per la comunicazione del Diagonal Loft Club e di Deposito Zero Studios dove sono responsabile della direzione artistica del video format Live Zero. In questa rubrica vi presento nomi emergenti della scena americana, alcuni dei quali, intanto, sono diventati grandi.

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