Grazie ad una tecnica di intelligenza artificiale chiamata sonificazione lo scienziato Markus Buehler, del Massachusetts Institute of Technology, è riuscito a tradurre in musica il Coronavirus. Studiate le sequenze degli amminoacidi che compongono la catena proteica del virus, i ricercatori le hanno riprodotte fisicamente, assegnando ad ogni proteina un suono, ad ogni particella un ritmo e ne è uscita una melodia soffusa e rilassante, pubblicata su Soundcloud.
Dalla paura più grande che affligge il mondo ne sono uscite note e melodie che sanno essere benefiche. È stato dimostrato infatti scientificamente che la musica è la colonna sonora del benessere. Ascoltare e suonare uno strumento influenza le attività umane, comprese quelle immunologiche. In particolare, la musica classica con le sue linee armoniose ha effetti curativi che vanno oltre il puro godimento. Nell’attuale clima di sconvolgimento e incertezza mettersi all’ascolto delle opere classiche può diventare un’esperienza salvifica, una meditazione sull’esistenza e allo stesso tempo una rassicurazione che affermi la vita. Come accade nell’opera 133 di Beethoven, una vera e propria preghiera musicale, dove il primo violino si interroga in modo esitante e incerto fin quando però il compositore riporta l’ascoltare su una melodia confortante che porta a sperare che il bene e la bellezza dell’umanità alla fine prevarranno. Abbiamo avuto il privilegio di confrontarci su questo e molto altro con Andrea Obiso, nuovo primo violino all’Accademia nazionale di Santa Cecilia, nato a Palermo nel 1994.
Riconosciuto dalla critica un “enfant prodige”, ha iniziato lo studio del violino e del pianoforte a sei anni con i genitori musicisti e, a dodici anni, ha debuttato come solista con la Orchestra Sinfonica Siciliana. Tra i pochi al mondo a diplomarsi al conservatorio a 14 anni con lode e menzione speciale, ha vinto il concorso per oltre ottanta candidati per la selezione del nuovo primo violino spuntandola sui tre concorrenti stranieri giunti in finale, un francese, un giapponese e un romeno, creando fin da subito un’intesa particolare con il maestro Antonio Pappano. In questi giorni è in Germania dove lo abbiamo raggiunto.
È nato il suo amore per il vìolino nella magia del Natale mentre faceva l’albero e ascoltava i suoi genitori musicisti, suonare i loro strumenti, aveva cinque anni e chiese un bis che non ha più avuto fine.
Il violino è considerato il sovrano degli strumenti musicali, il suo tono emerge chiaramente al di sopra degli strumenti musicali, facendone la voce ideale per portare la melodia o sorreggere il canto. Strumento di grande espressività, spesso ritenuto persino capace di avvicinarsi alla voce umana. Guarda il suo strumento e cosa pensa?
“Ha detto bene è un bis durante tantissimi anni. Grazie ai miei genitori ho scoperto prima di tutto l’amore per l’ascolto, quella sera ho capito la differenza tra sentire e ascoltare. L’albero di Natale non si è fatto più e dopo un mese suonavo il violino. Quando guardo il mio violino penso che è un pezzo di legno e che dalla nostra unione si trasforma, vibra, mi segue e mi supporta. Il mio strumento mi ha accompagnato nei momenti più difficili della mia vita, con le sue risposte ho trovato quello che non riuscivo a spiegarmi della mia identità e ha trasformato negli anni il mio essere musicista. Nonostante il violino porta a essere prima donna mi ha insegnato che non dovevo più concentrarmi su me stesso ma trovare una nostra collaborazione per avvicinarmi e connettermi attraverso i sentimenti all’esperienza dell’audience. Il mio fine ultimo non sono i premi, i riconoscimenti, vincere concorsi, nonostante i tanti traguardi raggiunti ma è quello di accumunare, includere, far arrivare alla catarsi”.
Il primo violino è anche un leader, il suo strumento si deve concentrare insieme agli altri, per poter tutti parlare la stessa lingua. Il concertare, l’idea democratica della musica, è espressione altissima del pensiero umano, coinvolge chi la fa come chi l’ascolta. Il corpo partecipa, i piedi battono a ritmo, la respirazione si fa più frettolosa, si condivide quell’emozione con il proprio vicino, un miracolo che si compie ogni volta che si suona perché la musica ha il potere di modificare le cose, non solo di testimoniarle e quando la trasformazione avviene, non c’è categoria sociale, non c’è ricco o povero. C’è solo la grandezza della musica che sa emozionare e unire nella sua aurea luminosa. Qual è il rapporto che si crea tra il musicista, l’orchestra e la sala da concerto? Qual è la cosa che pensa quando sale sul palco e quella quando scende?
“Io la pace la trovo grazie all’audience che entra in teatro come chi la cerca e la trova in teatro dopo una giornata di lungo lavoro. Quando salgo sul palco ho una generica idea di quello che succederà, ma ogni volta è diverso, ogni orchestra così come ogni pubblico è diverso, i pezzi sono gli stessi, ma quando suono Čajkovskij a Palermo non è come quando lo suono in America, ogni parte del mondo ha i suoi ascoltatori e mi connetto ogni volta con la cultura del luogo e con l’orecchio di quel pubblico che mi fa suonare in maniera diversa. Quando salgo sul palcoscenico la cosa che mi prefisso è vedremo cosa succede, per poi perdere la dimensione della realtà e tutta la preparazione che c’è dietro cerco di non farla intravedere perché è l’esperienza stessa che fa il concerto. Mi libero, cosicché posso fare esperienza del concerto e di quello che condivido in maniera unica e autentica”.
La stagione sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia prosegue senza pubblico in sala e ci si collega attraverso la tecnologia. Se da un lato è frustante dall’altro permette di realizzare qualcosa che fino a pochi anni fa sarebbe stato impossibile e raggiungere un pubblico più ampio. È strano suonare senza la presenza del pubblico che ti da la carica e l’energia per potersi esprimere meglio. La caratteristica di un’orchestra è la vicinanza e il web è diventato il nuovo palco. Eppure, la maestosità di certe sinfonie commuove e scavalca la storia, sono senza tempo, compositori come Mozart sono contemporanei. Riescono a rompere anche le barriere tecnologiche dei nostri tempi? È possibile trasmettere la propria creatività o si suona con un atteggiamento più meditativo?
“Ora è difficile esprimersi senza pubblico, è più un lavoro di minuzia interpretativa perché c’è la mancanza di quel calore umano. Non riesco totalmente a trasmettere la mia creatività, l’orchestra funziona anche grazie al pubblico, si crea una connessione tra noi musicisti, l’orchestra nella sua complessità e il pubblico. Adesso la forza è l’unione tra i colleghi dell’orchestra, pensare che sia il web presente nella sala vuota, è un paradosso perché non lo vediamo, so che c’è il pubblico ma non lo sento li con me e non si riescono a rompere le barriere tecnologiche. L’applauso non è memoria muscolare, è l’incoraggiamento, è la stretta di mano, è quando dicono eccoci, ci siamo e tu ti senti pronto a esprimere l’idea del pezzo attraverso le emozioni che provi facendo da tramite. Senza pubblico si tende a concentrarsi di meno, perché si associa la sala vuota alla prova, il set up è lo stesso, ma manca l’adrenalina che velocizza il sentimento e anche la ricerca interiore dell’ascoltatore, la sua esperienza catartica è viziata”.
I musicisti si attaccano emotivamente ai loro strumenti, dopotutto un violinista trascorre molto del suo tempo con lo strumento annidato sotto il mento. Con il tempo si crea una connessione, lo strumento riconosce il proprio padrone, ci si adatta, dimostrandogli memoria e fedeltà. Chiedere a un violinista di cambiare strumento è una follia, una tentazione vertiginosa. Lei suona un violino “Giuseppe Guarneri del Gesù 1741” affidatogli da NPO “Yellow Angel” e un arco “E. Pajeot” di proprietà della “Nippon Violin Co. Ltd.” di Tokyo e osservandola la sua espressione riflette ogni cambiamento di armonia mentre il suo corpo si ritrae, con un leggero sussulto a ogni accento ritmico. Quali sono le caratteristiche dei grandi violini e cosa rende questo violino diverso da un altro?
“Il mio ragazzo non è facile da approcciare e questo mi rende sempre curioso di capire come reagisce agli agenti atmosferici, al mio umore, al mio bisogno di dover rilasciare una certa energia, apprezzo di lui che riesce a seguirmi in tutte le mie personali fasi. La cosa che ha di particolare è che riesce a riportarmi nella mia prima esperienza, quella mentre ascoltavo i miei genitori, riesco a essere tenebroso, a modellare perfettamente il registro cupo e poi riesco a sprigionare dolcezza anche nel registro acuto e non tutti gli strumenti che ho suonato riuscivano a seguirmi così, con lui ho un buon equilibrio nell’organicità del suono. Siamo connessi e io non mi lego a un particolare timbro specifico prediligo la possibilità di provare sempre nuovi suoni, non ho uno stampo fisso, voglio sempre più colori e variazioni”.
Se qualcuno scrivesse un atlante delle emozioni suscitate dal suono dei singoli strumenti. Quale sarebbe quella del violino?
“Il violino è uno strumento, non identifichiamolo con qualcosa altrimenti lo facciamo diventare un personaggio troppo importante, non dobbiamo farlo sentire così importante. Nel XXI secolo dobbiamo avere l’apertura mentale di non incasellare, l’idea dell’arte bella riguarda tutti, ispira anche le persone che fanno lavori che sembrano non abbiano un valore artistico, invece tutt’altro. La burocrazia se ci pensa bene nasce per regolarizzare e per dare disciplina, ha anche lei nel suo processo una sua melodia. All’Auditorium di Santa Cecilia, mi capita spesso di fare due chiacchiere con i dipendenti dell’amministrazione e ricerco nei nostri dialoghi qualcosa che possa accomunarci, si aprono delle porte attraverso la comunicazione. Quando poi mi vengono ad ascoltare sento che sto facendo bene il mio lavoro, perché riesco ad abbracciare il numero più grande di persone, a legarmi con loro emozionalmente e umanamente. Così abbiamo vinto tutti”.
L’esecuzione di un brano necessita di immedesimazione con i sentimenti di chi lo ha scritto o è preferibile mantenere uno stato di imperturbabilità interiore?
“Quando suono la sinfonia per quindici strumenti di Schönberg, mi immedesimo in lui, nella sua musica e nel caso specifico nel suo modo di scrivere dell’amore, che è molto romantico ed esprime il sentimento puntualizzando le piccole dissonanze facendo si che l’energia dell’amore si sprigioni. Ho immaginato il suo modo di vivere l’amore nella mia libertà ma non facendo uscire il mio modo di essere romantico. L’ispirazione che viene dal compositore cerco di farla mia, ho scelto il violino e non il violoncello proprio perché tramite lui posso condividere un raggio ampio di emozione, il più alto. Dopo vent’anni che suono ricerco questo, dei gesti unici, ogni persona che conosco me ne ispira uno diverso e questo mi permette di includere più sensazioni disponibili”.
La musica in particolare è una forma d’arte che possiede potenzialità educative, terapeutiche, preventive e rappresenta uno strumento che facilita la comunicazione con se stessi, sia a livello psicologico, emotivo e cognitivo, che a livello fisico. In Italia l’educazione musicale si riceve ancora nel 90% dei casi per trasmissione famigliare e non come un contenuto educativo di base identico agli altri appreso nella scuola dell’obbligo. È fondamentale parlare di musica e si deve, chiunque può ascoltare la classica provandone piacere. Quali sono i cinque minuti che sceglierebbe da suonare per far innamorare i giovani di oggi alla musica classica?
“Molti giovani si spaventano degli strumenti, ma il segreto sta nel partire dal quotidiano, suonerei la realtà che vivono. La Danza delle Spade ad esempio è la composizione più conosciuta di Chačaturjan ed è uno dei brani pop-orchestrali più noti del XX secolo, la famosa pubblicità del marchio Chantecler. Ecco, comunicherei con il canale che hanno più vicino per invogliarli all’ascolto della musica classica”.
Nella sontuosa sinagoga ortodossa di Prešov, in Slovacchia, il giovane violinista Lukáš Kmiť è stato interrotto durante un concerto dalla suoneria di un cellulare. Quando, in una situazione sacrale come quella, si sente il banale ‘ringtone’ di un telefono, non si sa chi sia più a disagio: il possessore dell’aggeggio, il resto del pubblico, i musicisti che si vedono interrotta la concentrazione. Dopo un momento di drammatica sospensione il violinista ha ripreso a orecchio il motivo classico della suoneria. Alla fine dell’esecuzione, Lukáš Kmiť ha alzato le spalle con ironia meritandosi l’applauso. Siamo distratti dai continui suoni che attraggono il nostro udito, il vivere è diventato un incessante richiamo, sveglie, allarmi, promemoria che ci ricordano come dobbiamo vivere, c’è un uso indiscriminato della tecnologia che mal si concilia al silenzioso ascolto di un brano di musica classica. Come immergersi nell’attento richiamo di una melodia classica piuttosto che nell’uso compulsivo del telefonino?
“Non c’è un modo, non c’è ’ascolto della musica classica perché non fa parte della nostra tradizione, e quindi anche se si acquisisce si perde facilmente e il teatro ormai lo abbiamo a portata di mano, nel nostro cellulare, l’intrattenimento si è ridimensionato in una scatolina che non lasciamo mai. Quando non esistevano i cellulari, il legame con alcuni luoghi quali il teatro era più forte proprio perché permettevano la distrazione adesso la distrazione è il cellulare stesso e il bisogno di musica per nutrirlo non necessita più di un luogo fisico. Inoltre, si deve rompere l’idea che la musica classica è dell’élite attraverso l’educazione scolastica e deve riflettere la vita dei nostri giorni. È necessaria un’apertura che vada oltre la tradizione, è importante portare novità, questa sarebbe una scommessa anche a livello politico. Al popolo si deve insegnare di non aver paura della diversità. La musica classica può sembrare che sia di nicchia ma è di tutti e offre una diversità a cui non si è abituati, una canzone rap oggi la riconosci subito a differenza di un pezzo classico del 900 che è di natura completamente diversa e chi lo ascolta fa parte di quel diverso, proprio perché ci sia basa più sull’immagine, si è attratti molto di più dal cantante che fa un video”.
A differenza della minaccia esistenziale che stiamo vivendo rappresentata dall’epidemia del coronavirus, la pandemia del 1918 non ebbe un forte impatto sulla musica, come emerge da un articolo del New York Times. La vita culturale tornò rapidamente alla normalità dopo l’influenza e non trasformò la scena culturale americana. Un editorialista di Musical America all’epoca stimava che il danno finanziario alla musica dall’epidemia ammontasse a circa $5 milioni a livello nazionale, l’equivalente di circa $ 85,5 milioni di oggi. Nel 2020 il MET da solo rischia di perdere questa cifra, o anche di più a causa delle chiusure imposte dal coronavirus. La pandemia venne percepita come un inconveniente temporaneo e la musica era qualcosa di cui le persone non potevano farne a meno, ne avevano bisogno per quanto l’amavano. Anche allora come oggi ci si rivolgeva alla musica per trovare conforto, uno dei segreti della musica è riuscire a dare forza ed equilibrio nei momenti difficili?
“Nei momenti difficili, la musica deve dare forza. Ti permette di vedere la luce, il barlume. Ti dà il coraggio, la speranza che qualcosa della normalità è rimasto. La musica proprio perché è capace di distrarre, ti aiuta a reagire e a ricercare una normalità anche se precaria ma soprattutto aiuta ad accettare, attraverso lei possiamo cantare anche la nostra tristezza. Nella pandemia del 1918 andavano tutti insieme al teatro per darsi forza e accettare, in egual misura anche se in modi differenti, nella spontaneità dei canti sui balconi nel lockdown Italiano, di pochi mesi fa, c’era tutto il dolore e la speranza che stava vivendo l’essere umano in quel momento”.
Simon Gronowski, è un uomo sopravvissuto all’olocausto e ad aprile durante l’apice della prima ondata di pandemia, ha iniziato a illuminare la vita del suo quartiere suonando brani jazz dalla finestra del suo appartamento in Belgio. Suonò regolarmente portando sollievo ai vicini terrorizzati, regalò musica e i suoi concerti improvvisati hanno sollevato l’umore di molte persone in un momento di estrema difficoltà. La musica è un mezzo di comunicazione, è accessibile a tutti e connette anche nelle situazioni dolce e amare. Suonare per gli altri rende felici le persone ma ha anche un valore intrinseco per se stessi? Qual è il brano che aprendo la sua di finestra durante il lockdown ha suonato per gli altri e quale suona per lei?
“Assolutamente sì, suonare ha anche un valore intrinseco per se stessi. Simon il suo valore intrinseco l’ha trovato nei brani jazz che esprimevano la sua personalità. Io sono molto legato al compositore del 900, Ysaÿe, Eugène, e la mia pillola giornaliera anzi notturna suonata in sordina, è stato il movimento della seconda sonata, Malinconia, delle 6 che ha scritto per solo violino. Per gli altri mi accomuno con un pezzo che sa dare luce ed è il preludio di Bach della terza partita, un pezzo estremamente sereno e fluido. Lui è il mio biglietto da visita”.
Il jazz è la musica della resistenza, perché era il suono dei neri americani, non si può capire l’America senza capire il jazz. Durante la pandemia i brani jazz sono diventati una presenza costante nella città di New York, i musicisti si esibiscono nei parchi, nei marciapiedi e nelle scale dei palazzi, un segno positivo di speranza e resilienza. Tra il jazz e la musica classica c’è sempre stata un’attrazione anche se una sinfonia classica normalmente è più lunga e si sviluppa in modo differente rispetto i brani jazz che sono brevi e caratterizzati dall’improvvisazione. Molti compositori classici sono influenzati e affascinati dallo swing del jazz e dalle scale blues, tanto da iniziare a incorporarli nei loro lavori. Ritiene che il jazz e la musica classica siano poi così distanti? Trai i suoi ascolti figura qualche brano jazz? La disciplina e il rigore dello studio classico possono trovare un punto di incontro con l’improvvisazione?
“Assolutamente sì. Chi non ascolta il jazz non sarà mai un musicista classico completo. Non c’è nessuna esecuzione di brano che non si improvvisi, anche Mozart che ha rigori stilistici si riesce a suonarlo libero, improvvisando. Il punto d’incontro è il valore dell’improvvisazione, la disciplina della musica classica non significa mancanza di libertà. Io cerco distaccarmi il più possibile dall’inchiostro delle note affinché la disciplina si unisca all’improvvisazione”.
Yo Yo Ma, incontrastato re del violoncello, è arrivato in America in vetta alle classifiche, e vincendo dei Grammy, per essersi permesso di accantonare in due album la musica classica, per unire insieme musica country e d’ avanguardia. Un cultore delle note classiche che si dedica alla vera radice del suono americano, quella country, che raccoglie in sei stili popolari e afroamericani e abbatte le barriere della serietà classica attraverso la creazione. Lei è curioso di sperimentare linguaggi diversi? Bach era affascinato dal folklore della sua epoca, anche lei porta con sé il sapore del folkore locale della sua terra, la Sicilia?
“Sì certo, ci sono delle piccolissime particelle della mia tradizione che vengono ripetutte in tutto il mondo. Quando suono Ta taaa mi rifaccio alla storia dell’Impero austro-ungarico e allo stesso tempo alla storia dei canti africani, se ci pensa bene, il ritmo della prima nota è più corto ma anche più forte e fa reagire la seconda nota meno intensa e più lunga ed è una piccola particella che ha dietro tantissimi legami con la storia dell’uomo. Un contrasto che possiamo incontrare in qualsiasi interazione umana. Tornando alle mie origini, mia nonna cantava, suonava la chitarra e i tamburelli di domenica, la mia bisnonna suonava il mandolino, questo è quello che mi porto, quando entro in un teatro rompo le barriere portando la gestualità popolare della mia terra. La Sicilia ha la sua cultura musicale, ha la sua energia che è unica, mentre suono i pezzi porto con me quel valore popolare che riesce ad aprire le orecchie anche agli ascoltatori più sordi”.
La musica è un laboratorio di poesia di bellezza, un posto sicuro dove stare al sicuro. Il suono del violino sa trasportare un messaggio di speciale risonanza soprattutto in questi tempi difficili. Quale melodia virtuosa suonerà per infondere speranza in questo confuso Natale e soprattutto che possa indurre gli ascoltatori a riconoscere con gratitudine i doni magici concessi da quest’arte così garbata?
“Suonerò la sonata di Respighi, la stessa che suonavano i miei genitori in quel lontano Natale quando nacque il mio amore per la musica claissca”.