L’atmosfera che si respira a pochi passi dal palco centrale è magica. Ci sono una miriade di strumenti rudimentali, alcuni dei quali anche millenari come il didgeridoo australiano, la kalimba africana e lo scacciapensieri. Insomma immagini evocative che ti trasportano subito in un’altra dimensione. Ma anche un paio di palloncini e diversi contenitori di acqua. Sullo sfondo diverse tende bianche che pendono verso il centro dove si uniscono in un’unica grande treccia: una sorta di abbraccio che unisce la tradizione e l’innovazione. Un po’ come la musica dei BowLand, una suggestione elettro-esotica che fonde il trip-hop con le sonorità tipiche mediorentali, una sorta di dimensione sensoriale ed onirica dove spazio e tempo si annullano.

BowLand in irariano significa “alto” che poi è anche la destinazione a cui il trio composto da Leila Mostofi, Pejman Fani e Saeed Aman ambisce. Si sono conosciuti tra i banchi di una scuola di Teheran. Poi l’Italia, Firenze per studiare architettura ed avere più opportunità lavorative che però stentano ad arrivare. Una storia come tante marchiata made in Italy che però trova la forza di reinventarsi in un progetto musicale per nulla pop che sorprendentemente ha conquistato il pubblico svogliato dei talent, tanto da arrivare fino alla finalissima di XFactor 12. Lodo Guenzi, puntata dopo puntata, l’ha più volte sottolineato: sembrano delle star internazionali. Mai nulla di più vero. Te ne accorgi da come debuttano sul palco dell’Alcatraz che fino a pochi mesi fa vivevano dall’altra parte, tra il pubblico. Sale per primo Pejman, polistrumentista raro che grazie a strumenti musicali quasi impronunciabili e forse nemmeno classificabili, cuce le trame sonore di basi musicali in cui l’elemento materiale si disintegra nell’immateriale. Gli fa eco Saeed che invece è impegnato a ricamarci sopra grazie all’utilizzo dei synths e dei campionatori: l’incontro tra Oriente ed Occidente che mai prima di oggi erano stati cosi vicini. Infine sale lei, Leila, acclamata dalla gente dell’Alcatraz, timida leader di un trio quasi assurdo che con la sua voce erotica e suadente impreziosisce un gioiello raro e quasi inimitabile.

Canzone dopo canzone diventa ufficialmente un trip, un viaggio esperienzale verso l’ignoto, un filo conduttore già noto in “Floating trip”, il loro primo album datato 2017 di cui ripresentano alcune tracce condite da luci e colori sapientemente orchestrati sul videowall nascosto dalle tende. C’è spazio anche per le cover che li hanno consacrati investendoli di originalità: canzoni edite ma smontate, svestite dagli orpelli che le hanno rese celebri e rivestite in perfetto stile BowLand: il marchio di fabbrica che ha contraddistinto il loro percorso netto ad XFactor, senza mai venire a patti con la moda e le tendenze del momento che spopolano nelle chart. Suonano pezzi come “Get busy” di Sean Paul, “No Roots” di Alice Merton e la gettonatissima “Senza un perchè” di Nada, la loro prima prova (vinta) in italiano. Fino ad arrivare a “Don’t stop me”, l’inedito contenuto in “Bubble of dreams”, l’ep che hanno pubblicato a gennaio e che tutti cantano e ballano. Persino le signore di una certa età, che mai ti saresti aspettato al concerto dei BowLand. Perché il pubblico dei BowLand è così variegato che spazia dai giovanissimi, magari sulle spalle dei papà e quelli meno giovani, incuriositi e rapiti dal magico mondo che raccontano Leila, Pejman e Saeed. Segno tangibile che il linguaggio universale della musica unisce anche chi, solo apparentemente, è distante.
Un sogno da cui si fa fatica a svegliarsi ma che quando finisce, anche troppo presto dato il curriculum ancora verde dei BowLand, ti rimane comunque impresso. Qualcuno tra il pubblico dice che sarebbe il massimo se solo i BowLand potessero suonare e dipingere anche la vita di tutti i giorni attraverso la magia delle loro melodie. Vero. Anche perché di storie da raccontare questi tre ragazzi che vengono da lontano ne hanno. Ma per questo c’è tempo, visto che hanno in cantiere già un nuovo album.
