A pensarci bene, il Baglioni bis è stato il festival della discordanza. Altro che armonia come il dirottatore auspicava solo poche settimane fa. Non c’entrano le canzoni in gara: la qualità è nettamente migliore rispetto a quella dell’anno passato, tranne qualche piccola caduta di gusto, più o meno opinabile. Quanto piuttosto il fatto, se vogliamo singolare, che il Festival nasce in un momento ben preciso, quello prima delle elezioni e vede la luce in un Paese cambiato che stenta a riconoscersi, con un’altra Rai. Un piccolo-grande particolare, per nulla trascurabile che connota la sessantanovesima edizione del Festival di Sanremo come bislacca, capricciosa.
A farne le spese è stato soprattutto lo show, ammazzato, censurato, liquefatto rispetto a scelte musicali più che solide. Ecco perché lo abbiamo scritto fin dalle prime battute, sostenute dall’ammissione celata di Virginia Raffaele che conferma un Bisio in versione freno a mano tirato. Per parafrasare: canzoni sorprendentemente aperte alla modernità, gag incredibilmente (ma col senno di poi nemmeno più di tanto) ferme al varietà patinato.
La scommessa Baglioni l’ha vinta quando è andato dritto verso il processo di svecchiamento della musica, scegliendo finalmente i nomi che riempiono i palazzetti seppur bypassati dalle radio e che intasano le playlist dei più giovani: numeri alla mano questo è il Sanremo più seguito dai teen. L’ha vinta meno, se non addirittura persa, quando il suo festival è stato investito dal polverone politico nell’era di cinguettii, post e stories: armi potenti ed efficaci, capaci di ridurre, ad esempio, un monologo da quattro pagine a mezza paginetta.
Pollice in su quando sceglie Daniele Silvestri, insignito della Critica “Mia Martini” che per l’occasione diventa padre di un figlio prigioniero del sistema scuola che più che dare speranze le tumula in pensieri e tormenti che segnano, a volte, una vita intera. Ancora più su quando chiama Pio&Amedeo per colorare un palco che suona tanto, ma che non denuncia, strappando in un solo colpo le etichette che riportano la scritta “scurrile” dalle giacche di questi due attori foggiani troppo spesso sottovalutati. Il pollice verso quando la formula del festival, pur rinnovandosi, conta 24 brani da eseguire per intero senza risparmiarci la litania dei “di, dirige l’orchestra, canta” che dilata inevitabilmente i tempi di trasmissione. Ma su questo si potrà ragionare senza fretta.
C’è poi chi mal digerisce la vittoria, maturata esibizione dopo esibizione a dire il vero di Mahmood, artista eclettico che fa “moroccopop”, un rap/trap/pop contaminato con sonorità tipiche nordafricane e che grida al complotto in base al quale giornalisti e giuria di qualità avrebbero dirottato il voto popolare per lanciare un chiaro messaggio politico, compromettendo la demokratia. Nulla di più assurdo. Al contrario, le giurie dei cosiddetti “esperti” fungono da volano, da controllore della “democrazia mascherata” del televoto by call-center, che espone al rischio contrario e cioè quello di cancellare in un solo colpo di bacchetta la voce del popolo, visto che ad oggi non esiste nessuno strumento per verificare le operazioni di voto. Se ci sarà un Baglioni-ter senza gli esperti, come lo stesso direttore artistico ha lasciato intendere, accontentando (si fa per dire) il vicepremier più social di sempre e venendo incontro ai suoi personalissimi gusti dettati dai sondaggi, i Mahmood arriverebbero sempre secondi, gli Ultimo sempre primi. Salvini dixit.