Kathy Yaeji Lee a soli ventiquattro anni incarna alla perfezione l’anima cosmopolita di molti artisti della sua generazione. Nata nell’agosto del 1993 nel Queens, a Flushing, nei dintorni di quell’area che oggi in molti considerano per dimensioni e autenticità la nuova Chinatown di New York, si sposta insieme ai genitori dapprima a Long Island, poi ad Atlanta. Da quanto si narra i genitori, sudcoreani di Seoul, temendo che la figlia possa perdere la sua identità asiatica, decidono di ritrasferirsi nel paese d’origine, dove in ogni caso le faranno frequentare una scuola americana. Sarà il college a riportare la giovane sulla rotta degli States e della Grande Mela quando il padre, ex membro di sconosciute band metal, approverà l’iscrizione della figlia alla Carnegie Mellon.
Qui Yaeji sceglie un indirizzo di pittura e arte concettuale e inevitabilmente entra in contatto con i giri artsy più radical dell’istituto, inizialmente collaborando nella radio universitaria, successivamente da vera e propria dj e producer. Molto talentuosa in ambito artistico, fa l’assistente e la graphic designer, e progressivamente, inizia a comporre le sue tracce elettroniche. Come molti suoi coetanei è attratta dalla musica dance ed è bombardata di input nelle numerose serate di club di Manhattan e Brooklyn.
Lo smarrimento derivante dal suo precoce peregrinare da una città all’altra resta un punto di riferimento nei suoi testi, molto malinconici che alternano con equilibrio inglese e coreano. Non sembra importarle che il significato dei ritornelli rappati nella sua lingua madre possa risultare indecifrabile al suo seguito che cresce mese dopo mese grazie a qualche brano vincente caricato su Soundcloud. Nello spirito di Yaeji sembra assumere un tratto distintivo la volontà di celarsi e nascondersi.
Musicalmente si inserisce nella nuova scena house newyorchese, ma non solo. Tra i suoi punti di riferimento contemporanei si percepisce l’influenza di Mall Grab, Glacher e DJ Richard, ma a fare la differenza è proprio l’uso della voce che nei brani meno in battuta la avvicina a un alternative hip hop/rnb in linea con le tendenze underground più orecchiabili e potenzialmente da classifica.
Si accorge di lei Nick Sylvester, ex redattore di Pitchfork e titolare della label elettronica Godmode, che resta folgorato dalle idee di Yaeji e decide di fare uscire nel febbraio del 2016 New York ‘93 per la sua influente etichetta che vi abbiamo già presentato lanciando un altro astro nascente della scena americana, Shamir.
Nel frattempo Yaeji si è trasferita a Brooklyn dove vive la maggior parte del tempo nel suo studio di pittura, iniziando a farsi conoscere in party e serate della zona. Per preservare la sua identità e offrire un’esperienza diversa dal solito al pubblico, mette in piede una partnership con un ristorante coreano che nei suoi show offre del curry ai clienti del club.
L’EP che lancia la promettente vocalist e producer arriva all’inizio del 2017, si intitola semplicemente EP e contiene cinque tra cui il singolo New York ‘93 e una cover di Guap di Mall Grab. Nell’EP è affiancata dal produttore Robert Szmurlo e dallo stesso Nick Sylvester che la supporta ai synth e alle drum machine. Il resto lo fa la voce ipnotica e algida di Kathy.
Qualche mese dopo, a inizio autunno, arriva subito il seguito, EP2, anticipato dall’irresistibile Drink I’m Sipping On, presto segnalata tra le migliori tracce del momento da blog e magazine anche distanti da quel mondo house da cui ha mosso i primi passi la carriera di Yaeji.
L’album che esce il 3 novembre, che alterna dissonanze avant-rap e sfuriate house, contiene tra le altre cose una cover del tormentone di Drake, Passionfruit, che potrebbe pericolosamente avvicinarla a scenari mainstream.
Sembra davvero vicino il momento in cui, Yaeji, non potrà più continuare a nascondersi.