Ancora una volta ci addentriamo nel panorama italiano degli artisti indipendenti che producono cultura musicale. Siamo andati a conoscere Barbara Eramo, cantautrice italiana che dopo la tournée europea, e i concerti a New York, sbarca a San Francisco per presentare il suo nuovo disco dal titolo Emily, un concept di brani da lei composti su poesie di Emily Dickinson, considerata la più grande poetessa americana.
Si tratta di un disco finanziato attraverso il crowdfunding e arrangiato a quattro mani da Eramo e dal compositore e polistrumentista Stefano Saletti. Undici tracce con sonorità che oscillano tra venti d’oltreoceano, atmosfere che si fanno più rarefatte ed oniriche, e il postrock, Ognuno a rispecchiare i vari stati d’animo della Dickinson.
Barbara, da pochi giorni hai iniziato il tuo tour statunitense. Come è avvenuto il tuo incontro con Emily Dickinson?

“È stato casuale. Sentivo spesso parlare di Emily Dickinson come una delle scrittrici più originali di tutti i tempi. Ho ripetuto più volte a me stessa che dovevo colmare una lacuna e approfondire la conoscenza di un personaggio che suscita infatti ancora molte domande. Così ho comprato Le stanze di Alabastro (titolo originale: Safe in their Alabaster Chambers). Rimasi subito colpita dalla potenza visionaria della sua poesia che, libera dell’onere retorico, diventa per lei espressione di significati vitali, di sentimenti appassionati e di convinzioni profonde. Che la vita è bellezza, che l’amore spiega il dolore, e che l’immortalità dura. Una poesia sempre attuale e senza tempo e lo dimostra il fatto che ancora oggi è tra le poetesse più amate. La scrittrice ribelle, come molti critici la definiscono, è stata infatti capace di usare la poesia come unico mezzo per condurre le sue rivoluzioni personali contro l’ipocrisia dei suoi tempi. Per farlo ha scelto la solitudine della casa paterna fin dall’età di venticinque anni”.
Emily Dickinson non ha avuto una vita facile. Nei momenti difficili hai un segreto che ti permette di non mollare?
“Ho accettato il fatto che l’esistenza presenta innegabilmente un andamento circolare. In questo movimento si rincorrono la gioia, la speranza, le delusioni e i dolori. Detto questo, io cerco di mantenere l’equilibrio e aspetto che ritorni il suo giro in salita circondata dalle persone a me più care e dai miei adorabili gatti, Teo e Azuki”.
Senti di avere un feeling speciale con New York?
“E’ solo la seconda volta che visito questa folle città. Già nel primo viaggio ha saputo sorprendermi e lasciarmi davvero impressionata di fronte alla sua maestosità. L’irrequietezza dei suoi abitanti, il movimento incessante, l’elettricità nell’aria, sono simboli di una cultura che non smette mai di prendere forma, che corre veloce e che ti trascina in un vortice di emozioni. Questa volta invece a prevalere è l’entusiasmo. Ho preso più confidenza con una città ricca di contrasti, popolata dall’umanità più varia per razze e cultura, ed è uno stimolo continuo. In una città come New York l’adrenalina scorre a fiumi e per chi come me preferisce affrontare l’onda più alta perché altrimenti tutto diventa routine e noia, è il luogo perfetto dove sperimentare diversi generi musicali”.
Che rapporto hai con la musica americana?
“Ha sicuramente influenzato tutto il mio percorso artistico. A partire dalla cultura black contemporanea, passando dall’r&b fino al soul. Agli inizi della mia carriera musicale c’è stato anche il Gospel. Non a caso appena arrivata a New York, ho voluto visitare subito le chiese di Harlem dove vengono cantati i migliori gospel diNew York, e poi il leggendario Apollo Theater dove è inevitabile non pensare a James Brown e a come un concerto possa condizionare la cultura pop in maniera profonda. Per una questione di mentalità e di curiosità, ho comunque sempre cercato di esplorare la musica e questa mia continua ricerca ha coinvolto i songwriter e le band rock che dagli anni ’70 ad oggi hanno fatto la storia della musica americana. Ma da ragazzina sognavo di lanciare gli spartiti in aria e scendere sull’asfalto per volteggiare nel traffico di New York, a ritmo di musica, proprio come i protagonisti di Fame: la serie televisiva che negli anni Ottanta diventò un fenomeno di culto per tantissimi giovani che come me avevano deciso di dedicare la propria vita alla musica, al canto e alla composizione”.
Il sogno americano esiste ancora o è ormai un’illusione?
“Direi entrambe le cose. Negli Stati Uniti la fortuna non piove dal cielo. Tuttavia si può ancora fare qualcosa. Perché siamo in Paese che si riconosce nelle poesie di Bob Dylan. Poi l’aura magica che circonda questa città è innegabile e ti fa venir voglia di buttarti nella mischia, di provarci almeno. In fin dei conti, realizzare i propri sogni è un progetto di vita. E se hai talento, passione e tenacia, l’America è un paese che ti premia”.
Un commento sui talent show. Aiutano ad avere successo o è qualcosa da evitare per chi voglia fare musica di un certo tipo?
“Qualcuno ha detto che stanno distruggendo la musica perché sfornano cantanti usa e getta e sono la tomba della creatività. Purtroppo mi trova d’accordo perché oggi in Italia la musica è ferma e i giovani sono quasi obbligati a partecipare a questi format perché altrimenti accedere al mondo della discografia diventa una sorta di mission impossible. Alla fine si crea un grande karaoke che taglia fuori chi la musica se la scrive da solo, con testi capaci di trasmettere emozioni e stati d’animo”.
Ritieni che la musica italiana sia esportabile?
“Per la musica d’autore italiana rimane un compito arduo imporsi in un mercato enorme come quello americano ancora attratto da un repertorio classico e da canzoni che propongono la melodia della tradizione italiana. Se ci fosse più spazio per la musica indipendente, molti artisti italiani, grazie alla peculiarità degli arrangiamenti musicali e a testi che travalicano i confini culturali, avrebbero la possibilità di puntare in alto. E’ necessario un cambio di rotta, altrimenti si continua a proporre canzoni che, seppure bellissime, agiscono come stereotipi di un Paese che all’estero sembra ancora relegato a immagini standard del turismo da cartolina”.
Dopo i concerti a New York, sei sbarcata a San Francisco per altri due live. Chi è il tuo pubblico qua negli States?
“In generale sebbene tra East Coast e West Coast ci siano proprio due modi diversi di concepire e di fare musica, hanno in comune un pubblico molto attento, curioso e coinvolto. Un artista vive se riesce a trasmettere le sue passioni. E in tutti i luoghi in cui mi sono esibita, associazioni culturali, luoghi istituzionali come l’istituto di italiano di Cultura di New York e live club, ho avuto la fortuna di essere circondata da spettatori entusiasti. Comunque lo ‘sforzo’ è riuscire a scrivere musica in grado di raggiungere tipologie di pubblico culturalmente diverse. Perché penso che la musica non debba avere confini”.
Ci sono molte collaborazioni nel tuo percorso artistico. Quali progetti hai scelto di portare negli States?
“Con il polistrumentista Stefano Saletti e il pittore e musicista iraniano Pejman Tadayon siamo da anni presenti sulla scena italiana e internazionale nell’ambito della world music, musica etnica e della canzone popolare con la Banda Ikona. L’obiettivo del progetto, presentato il 7 dicembre all’Istituto italiano di Cultura, è raccontare il difficile dialogo tra la sponda nord e sud, i drammi dei migranti, la ricchezza, le speranze, il dolore che attraversano i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, ognuno con le sue idee, il suo credo religioso, e le sue tradizioni. Invece il 4 dicembre ci siamo esibiti al Sufi Cultural center per proporre l’ Ensemble di musica e danza sufi diretto da Pejman, che unisce musica, danza e poesia per celebrare alcuni dei più grandi mistici di tutti i tempi: Jalalludin Rumi, Hafez, Omar Khayyam“.
Barbara Eramo sarà il 17 dicembre alla KPFA Winter Crafts Fair 2016 di Richmond (California) e il 18 a Musical of Reflection 2016, Chapel of the Chimes, Oakland. In entrambe le date si esibirà con Laura Inserra.