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June 9, 2016
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June 9, 2016
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Come il Primavera Sound cambia la faccia di Barcellona

Nella città catalana appena concluso il miglior festival di musica contemporanea europeo

Francesco TaddeuccibyFrancesco Taddeucci
primavera-barcellona
Time: 3 mins read

Mi ritrovo a osservare un signore sovrappeso in completo kaki che balla da solo nel piazzale antistante il palco di DaM-FunK, un DJ electro-funk di Los Angeles. Giusto qualche ora prima avevo visto una cantante turca, Selda Bagcan, vestita come una normale zia turca di quelle che comunque si trovano anche nel resto d’Europa, con lo scialle e tutto il resto, ma con un certo seguito sotto al palco e una meritata fama da Joan Baez locale. E poco dopo sarò proiettato sotto un palco di ultra settantenni, il più famoso dei quali si chiama Brian Wilson, per celebrare un disco uscito 50 anni fa con il titolo di “Pet Sounds”. Tre mondi totalmente agli antipodi, e almeno altri dieci pronti da visitare con un’unica chiave. Non sono su un set di un film, né tantomeno all’inferno, ma al Primavera Sound di Barcellona, probabilmente il miglior festival di musica contemporanea europeo.

Come in ogni manifestazione del genere, il bello è che ci trovi di tutto. Il brutto è che per ogni concerto che vedi ce ne sono almeno altri tre che ti perdi. Da diversi anni il Primavera Sound di Barcellona se la batte in Europa come importanza solo con il britannico Glastonbury, portando nelle casse della città catalana dai 20 ai 30 milioni di euro e visitatori da 124 paesi, di cui moltissimi dall’America;  insomma una voce non secondaria dell’economia cittadina. “Una parte integrata della città” lo definisce non a caso El Pais. Durante la tre giorni del festival, per le ramblas incontri solo persone con il braccialetto di tela che garantisce l’ingresso. “Quando un festival diventa ancora più importante degli artisti che ospita – mi racconta Luca De Gennaro (MTV Europe) – hai fatto bingo. E qui a Barcellona è successo già da diversi anni “.

primavera barcellona 2Come è naturale, anche al Primavera Sound la comunicazione gioca un ruolo importantissimo: appena la line-up diventa ufficiale, viene rilasciato un video che racconta come in una storia animata degna del nuovo credo dell’advertising (l’amato-abusato storytelling)  i nomi dei partecipanti. Questo video  diventa virale nel giro di poche ore, perché tutti vogliono condividere il ricco menu apparecchiato in riva al mare della Spagna. L’app dedicata viene aggiornata di conseguenza, e funziona perfettamente. Durante le giornate del festival si rivela una guida tempestiva e quasi insostituibile a quello che succede nel 12 palchi montati al Parc Forum che ospita questo festival dal 2005 (prima si svolgeva in un piccolo borgo fuori città). La grafica è sobria, ordinata, e tutto è improntato alla massima usabilità.

E poi naturalmente ci sono gli sponsor. L’invasione dei brand quest’anno è stata più evidente che in passato. Heineken l’ha fatta da padrona, e i nomi Ray-Ban, H&M, Adidas battezzano i palchi su cui si muovono le star. La gente può bere solo Red Bull, acqua e – appunto – Heineken, visto che ogni altra bevanda è sequestrata all’ingresso. Una massiccia presenza di brand tutti però integrati abbastanza bene con lo spirito e le aspettative dei partecipanti: Spotify e la stessa Radio Rai non sembrano stonare più di tanto con i loro loghi sgargianti su maxi schermo. Così come lo scorso anno Airbnb faceva intendere di essere la casa ideale per i partecipanti. Non siamo più a Woodstock, e i fans sembrano essere pronti a sopportare qualche consiglio per gli acquisti senza gridare allo scandalo.

“Non è piacevole vedere i tuoi artisti preferiti, a volte indie o comunque poveri, sovrastati o accompagnati da loghi luminosi e filmati prima e dopo le esibizioni” borbotta Alessandro, musicista e purista anche lui venuto dall’Italia per il festival.  Ma del resto è anche grazie agli sponsor se sono stati ingaggiati artisti carissimi come i Radiohead o i newyorkesi LCD Soundsystem (riformatisi di recente quasi apposta per far esplodere il pubblico di Barcellona come dei Talking Heads di oggi), o si sono mosse complesse macchine da guerra come quella di PJ Harvey, che ha proposto  la sua musica da cavalleria con fiati e tamburi, pur restando squisitamente rock e insuperabile come presenza, carisma e musicisti al seguito. (Per la cronaca, il massimo dei voti li diamo anche a Beach House, Avalanches, Sigur Ros, Moderat, Roosvelt, Ty Segall, Tame Impala, Action Bronson. Gli altri ce li siamo semplicemente persi.)

Ed è solo perché il festival è diventato un lovemark, che oggi si può permettere di vendere i biglietti con un anno di anticipo, al buio: dal 15 giugno si possono acquistare scontati dal sito quelli per l’edizione 2017, su cui già fantasticano i fan. Qualcuno sogna i Red Hot Chili Peppers, altri attendono delle reunion fantomatiche, qualcuno punta su un Michael Stipe in solitario; ma il bello è che tutti, indistintamente, sanno che il Primavera non li tradirà nemmeno stavolta. A prescindere dalla line-up.

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Francesco Taddeucci

Francesco Taddeucci

Francesco Taddeucci, detto Ted. Cittadino onorario di New York dal 1981, ma lo so solo io. Mi occupo di pubblicità, e sono partner e direttore creativo di un’agenzia di comunicazione indipendente che si chiama SuperHumans. Ho scritto e condotto vari programmi per Radio2, e insegno Creative writing all'università Luiss. E naturalmente sono anche qui: a Roma, New York.

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