Il mese di settembre stava inevitabilmente finendo e, con esso, stavano anche terminando le nostre vacanze estive che, all’epoca, duravano un sacco, quasi quattro mesi. Le scuole, infatti, iniziavano ai primi di ottobre e i corsi universitari addirittura a novembre inoltrato. Insomma, era proprio una gran pacchia per noi studenti e una gran rabbia, immagino, per i giovani di oggi.
Fatto sta che, in quel lontano inizio d’autunno del 1975, l’unico pensiero che avevamo noi ragazzi era quello di come passare il tempo e, soprattutto, di come spendere al meglio le nostre serate. Ma quella lì in particolare, mannaggia, si stava presentando come una serata abbastanza scialba. Piovigginava, iniziava a far freddo e noi non avevamo neanche troppi soldi in tasca.
I pochi spiccioli nelle tasche, infatti, non sarebbero bastati neanche per una birra, figuriamoci per una pizza. Io e il mio amico Paolo, oggi celebrato architetto, eravamo andati a trovare Adriano, figlio di un noto pittore che abitava all’epoca in viale Aventino, nei pressi della Piramide Cestia.
"Che facciamo? Dove andiamo?". Queste le domande che ci ponevamo insieme quella sera e poche furono le risposte interessanti. Sembrava proprio una serata destinata a finire male, quando Paolo si mise a sfogliare distrattamente un giornale e ad un certo punto esclamò: "Stasera suona Lucio Dalla, nei giardini di Piazza Albania. Praticamente qui davanti. Il concerto è nell’ambito del Festival dell’amicizia Italia – Cuba. Ingresso gratis".
"Gratis? Che bella parola", esclamai io, mentre invece Adriano continuava a ripetere, piuttosto sconcertato: "Ma Lucio Dalla, chi?".
Dovete sapere che il geniale artista bolognese, in quel periodo, viveva uno dei periodi più bui della sua intera carriera. Dopo la buona fama goduta negli anni Sessanta e le varie partecipazioni al Festival di Sanremo e al Cantagiro, infatti, le sue azioni erano improvvisamente scese in picchiata. La stessa cosa accaduta al suo amico e concittadino bolognese Gianni Morandi che, dopo l’immensa fama, era sceso anche lui nel dimenticatoio, finendo addirittura ad iscriversi al corso di contrabbasso del conservatorio di S. Cecilia, visto il gran tempo libero a disposizione.
Qualche anno prima, la canzone di Dalla 4 marzo 1943, il cui titolo originale era invece Gesù bambino, era stata censurata dalla Rai per il testo ritenuto troppo spinto. Ma Dalla non aveva mollato. Abbandonata la sua tradizionale collaborazione artistica con i parolieri Bardotti e Baldazzi, si era affidato alla creatività del poeta Roberto Roversi, con il quale aumentò anche il proprio impegno politico e sociale. Il risultato di questo nuovo rendez-vous fu un disco appena uscito, dal titolo Anidride Solforosa.
Quando noi tre arrivammo in piazza Albania, nei giardini vicino alla Piramide, la pioggia era aumentata ulteriormente. Da lontano ci arrivava già la musica della prima canzone, ma non capivamo bene da dove provenisse. Ci avvicinammo ancora e, improvvisamente, notammo il trio dei musicisti, quasi nascosto, in un angoletto, vicino ad una siepe. Ricordo che c’era un bassista molto alto di nome Marco, un altro chitarrista il cui nome non ricordo e poi lui, Lucio Dalla, seduto dietro ad una microscopica pianola.
"Sono il miglior pianista in Do!", disse lui ad un certo punto, aggiungendo che non sapeva leggere la musica ma che, oltre al clarinetto, sapeva suonare la pianola, soprattutto facendo gli accordi del classico giro di DO maggiore.
La canzone che avevano appena attaccato si chiamava Le parole incrociate. Ci avvicinammo per sentire meglio, riparati sotto un grande ombrello che ci eravamo portati. Intorno a noi, in piedi intorno a quei tre, ci saranno state altre dieci persone, forse dodici. I musicisti, assolutamente incuranti della pioggia, continuavano a suonare tranquilli, come se invece che in quell’autunno romano si fossero trovati sotto il sole cubano, a cui era ispirato quello strano festival.
Dopo la prima canzone, ne suonarono un’altra, e stavolta era una canzone d’amore, bellissima. Si chiamava Tu parlavi una lingua meravigliosa. Le parole dicevano, più o meno:“Ci siamo scordati e perduti, ti ritrovo adesso all’improvviso dentro una piccola stazione, in un giorno grigio d’ottobre”. All’improvviso smise di piovere, chiudemmo gli ombrelli e dopo un po’ io mi trovai appoggiato con i gomiti alla pianola del piccolo folletto che continuava a cantare e che ogni tanto alzava gli occhi, mi guardava e sorrideva divertito.
Restammo a lungo così, a sentirli suonare, in quella notte romana che sembrava non finire mai. Loro suonarono da veri professionisti, per quelle poche persone che stavano lì. E, alla fine, attaccarono la canzone che dava il titolo al nuovo disco, Anidride Solforosa. La musica era eccezionale, in alcuni punti sincopata e divertente come un brano di Nino Rota, a volte, invece, dolce e melodiosa, nella tipica tradizione italiana.
E nelle strane parole c’era tutto, ma davvero tutto. C’era l’amore, certo, ma anche la lotta sociale, i problemi dell’ambiente, l’inquinamento. Insomma era tutto troppo e troppo presto per non farci pensare a Dalla come ad un precursore di un modo di sentire e di comporre che sarebbe esploso ancor di più negli anni a venire. Quel geniale piccoletto con la barba era un cantante che era stato famoso e che adesso non lo era più. Ma io, i miei due amici, e quelle altre poche persone presenti quella sera, sentendo quelle canzoni meravigliose e vedendo i suoi occhi magici e spiritati, ci rendevamo conto che era solo questione di tempo, perché Lucio Dalla avrebbe ripreso il suo cammino e non si sarebbe fermato più. Potenza del suo genio e potenza anche del giro di Do.