Domenica 22 giugno al Circo Massimo di Roma c’è stato il concerto dei Rolling Stones o, comunque, l’esibizione di ciò che è rimasto di loro, e dico questo riferendomi non tanto al punto di vista tecnico ancora su ottimi livelli, per carità, quanto, piuttosto, a quello dell’immagine. Gli anni sono quelli che sono ed è sorprendente vederli ancora quei vecchietti lì sul palco a darsi da fare con chitarre e tamburelli, davvero sorprendente in verità, considerando che altri comuni mortali, alla stessa età, fanno fatica anche ad allacciarsi da soli le scarpe e passano le giornate a giocare a carte con i vecchietti del bar o a dare da mangiare ai piccioni dalle panchine del parco. Ma insomma i visi incartapecoriti, solcati da centinaia di devastanti rughe, lasciano comunque ampi spazi alla fantasia per immaginare ciò che c’era prima e quello che questa band ha significato soprattutto nel passato.
Personalmente preferisco ricordarli in un altro modo.
Era il pomeriggio del 6 aprile del 1967 e avevo ancora quindici anni, ne avrei compiuti sedici soltanto tre mesi più tardi. Io e il mio amico Paolo, oggi valente architetto, avevamo acquistato i biglietti attraverso un noto giornale musicale dell’epoca, forse si chiamava Big oppure Ciao amici, non ricordo bene. Il concerto si teneva al Palazzo dello Sport, all’Eur che non era un luogo adatto a sentire concerti. C’era un riverbero assurdo, la musica si impastava tutta, le parole delle canzoni non si capivano proprio. Non che se ci fosse stata maggiore acustica, avremmo potuto capirle davvero quelle parole, visto il livello scarsissimo del nostro inglese dell’epoca. Andammo lì con la metropolitana , insieme a due ragazze, Rita e Monica, entrambe molto carine. Ci sentivamo bene, eravamo felici. Anche noi, nel nostro piccolo, avevamo appena fondato un gruppo rock che si chiamava The Mellows, con il nome preso in prestito da una famosa canzone del cantante scozzese Donovan, Mellow Yellow. In repertorio avevamo già inserito alcuni pezzi degli Stones tratti dal loro disco del 1966, Aftermath, a mio avviso il loro miglior LP di sempre. Le canzoni che provavamo a fare, cantando in inglese maccheronico assai e affrontando gli accordi non sempre nel modo giusto e coordinato, erano Lady Jane, Mother’s Little Helper e Under my Thumb. Facevamo le prove nel garage sotto casa e suonavamo fino a quando mio padre non tornava a casa e doveva rimettere dentro l’auto, una Giulia Alfa Romeo, se ricordo bene. Quando sentivamo il rombo del motore, allora smantellavamo tutto, chitarre, batteria e amplificatori, per ricominciare il giorno seguente allo stesso modo. Il sabato pomeriggio ci esibivamo invece alla Sever Beat Club, altrimenti detta fogna beat, un localaccio putrido e sotterraneo dalle parti del Pantheon che raggiungevamo trasportando gli strumenti e gli amplificatori sull’autobus della linea 94. Ci davano cinquecento lire a testa, quando andava bene. E quando andava male, un panino, un sorriso e una coca cola.
Nel gruppo degli Stones che salì sul palco quel lontano pomeriggio d’aprile suonava ancora Brian Jones, grande musicista polistrumentista, avvezzo a suonare proprio tutto, dalla chitarra al piano, dal dulcimer al sitar. Era destinato ad andarsene soltanto due anni dopo, nel 1969, trovato annegato in piscina, stremato da alcool e droghe.
Fu sostituito prima da Mick Taylor, poi da Ry Cooder e infine dall’attuale Ron Wood. Ma, in realtà, nessuno è mai riuscito a sostituirlo davvero, secondo me. Il concerto non durò più di 40 minuti e suonarono poche canzoni che replicarono poi nello spettacolo serale della stessa durata. Una di queste canzoni era il loro ultimo hit, Let’s Spend the Night Together, tratto dall’ultimissimo LP Between the Buttons e destinato a diventare subito un successo interplanetario. Per quei tempi le parole della canzone risultavano scandalose ai benpensanti ma sul parterre del Palazzo dello Sport quel pomeriggio le ragazzine romane sembravano impazzite e ballavano scatenate con quelle loro minigonne vertiginose che a un giovane sbarbatello come me facevano venire il sangue alla testa.
“Ti voglio!”, gridò ad un certo punto la mia amica Rita, seduta vicino a me e io ero già pronto a darle un bacio con tutti i crismi e la passione. Ma mi si smorzò il sorriso sulle labbra quando mi accorsi che l’oggetto del suo desiderio non ero affatto io e neanche il mio amico Paolo che sedeva dall’altra parte. L’oggetto del desiderio suo e praticamente di tutte le altre ragazze presenti quel giorno era quel tipetto dinoccolato e magrissimo, con le labbra larghe e grandi e la lingua sempre di fuori a fare sboccate boccacce a tutti e a tutto. Si chiamava Mick Jagger, per chi non l’avesse ancora capito, e aveva 23 anni. Non ci furono incidenti particolari durante il concerto anche se un centinaio di ragazzi tentò di entrare nei camerini tra il primo e il secondo tempo per ottenere qualche autografo. Credo che in tutto saremmo stati cinque o seimila lì dentro quel giorno e se penso alle folle oceaniche che si radunano adesso viene un po’ da ridere. Ma quelli erano i primi Stones, quelli veri, quelli destinati a restare per sempre la più grande band della storia del rock e, soprattutto, quelli erano anche gli anni della mia gioventù. Per questo forse mi sembra tutto più bello e magico. Non è forse così?