Abbiamo intervistato il professore emerito Gaetano Cipolla, che ci illustra il suo lavoro fatto negli ultimi trent’anni della sua carriera. Egli è presidente dell’associazione Arba Sicula e traduttore di testi poetici siciliani, ed editore della casa editrice Legas, specializzata nella pubblicazione di libri sulla cultura siciliana.
Il professore Cipolla, fiero siciliano, durante la sua carriera ha insegnato Lingua e Letteratura Italiana presso diverse università americane. Una di queste, l’ultima, è la St. John’s University di New York, dove è professore emerito. Gaetano Cipolla nasce nel 1937 a Francavilla, in provincia di Messina, ed emigra negli Stati Uniti nel 1955. Dopo aver completato gli studi si dedica alla promozione della lingua e cultura siciliana diventando Presidente dell’Associazione U.S.A. “Casa Sicilia”, Presidente e Direttore di Arba Sicula, un’associazione internazionale che pubblica una rivista bilingue che ospita articoli in inglese e siciliano, e del periodico Sicilia Parra, e Ambasciatore culturale della Regione Sicilia nel mondo. Cipolla ha vinto prestigiosi premi come il “Talamone”, il “Trinacria d’argento” e il “Proserpina”. Inoltre ha tradotto in inglese parecchi poeti siciliani e tra questi ricordiamo Nino Martoglio, Giovanni Meli, Antonio Veneziano, Nino Provenzano, Vincenzo Ancona, Senzio Mazza e Salvatore Di Marco.
Il progetto del Prof. Cipolla ha avuto, e continua ad avere, un grande successo non solo a New York ma anche in altre parti del mondo, dove vivono siciliani che vogliono ritrovare le proprie origini e le proprie radici tramite lo studio della lingua e cultura siciliana.
È autore di numerosi libri, tra questi ricordiamo “Learn Sicilian”, “Siciliana – Studies on the Sicilian Ethos and Literature” della collana Studi Siciliani, pubblicata da Legas; volumi nei quali il prof. Cipolla dimostra tutto il suo amore e la sua dedizione verso la lingua, cultura, e storia della Trinacria. Il suo ultimo libro è dedicato alla lirica del poeta palermitano Giovanni Meli.
Professore Cipolla, come Presidente di Arba Sicula, Lei rappresenta un’associazione che ha come obiettivo la promozione della lingua e della cultura siciliana nel mondo. Può dirci quali sono le attività che mirano a raggiungere questo obiettivo?
“Arba Sicula fu fondata nel 1979 da persone che credevano che i Siciliani e la Sicilia avessero acquisito negli Stati Uniti, in particolare, e nel mondo in generale una reputazione che non corrisponde alla realtà. Grazie ai media americani, si è creata un’immagine dei Siciliani come persone violente, vendicative, senza scrupoli che si comportano in maniera mafiosa. Le parole Sicilia e Mafia vanno insieme come “bread and butter” in inglese è “pane e vino” in italiano. Questo stereotipo è assolutamente dominante nella cultura americana. Arba Sicula si batte da quasi quarant’anni per presentare un’immagine più corretta dei Siciliani e della Sicilia, focalizzando la propria attenzione sulla lingua, sulla storia e sui contributi della Sicilia alla civiltà occidentale. Ecco le principali attività che svolgiamo per raggiugere questi obiettivi:
- Pubblichiamo Arba Sicula, una rivista bilingue (siciliano/inglese) che apre una finestra sulla cultura isolana: poesia, narrativa, arte, tradizioni, caratteristiche della lingua e recensioni di libri.
- Pubblichiamo Sicilia Parra, una rivista di 20 pagine, in inglese con eccezioni di due pagine di poesia con la traduzione in inglese.
- Pubblichiamo supplementi alla rivista, libri che toccano aspetti particolari della Sicilia;
- Organizziamo un tour annuale della Sicilia per i nostri associati. Finora ne abbiamo fatto 25 consecutivi;
- In collaborazione con Legas di cui sono direttore, pubblichiamo libri di interesse per i Siciliani. Abbiamo in stampa 137 titoli quasi tutti sulla Sicilia.
- E organizziamo eventi culturali alla St. John’s University. Tre o quattro eventi all’anno, offerti gratis alla comunità”.
Professore, riferendosi al siciliano ha parlato di lingua e non dialetto. Potrebbe elaborare questo punto?
“Certo. Arba Sicula crede che il siciliano sia una lingua e non un dialetto. Quando si parla di dialetto, normalmente si intende una lingua inferiore, subordinata a un’altra considerata più prestigiosa. Molti credo he il dialetto sia una corruzione della lingua egemonica. In questo caso il siciliano dovrebbe essere una corruzione dell’italiano. Chi porta avanti questo discorso ovviamente non sa nulla sulla storia linguistica del nostro paese. Va detto subito che il siciliano non è una corruzione dell’italiano. Il siciliano è una lingua che si è affermata in tutta Italia prima che esistesse l’Italia, cioè nel secolo tredicesimo sotto il regno di Federico II alla cui corte si elaborò il primo idioma letterario della penisola da parte dei poeti della Scuola Siciliana. Il siciliano dei burocrati e funzionari di corte che non erano tutti siciliani scrivevano le loro poesie in siciliano e questa lingua fu usata dappertutto in Italia prima che si affermasse il toscano. Lo stesso Dante afferma categoricamente che tutto quanto fu fatto in poesia in Italia per i primi 150 anni della nostra letteratura fu scritto in siciliano. Quindi se vogliamo, possiamo dire che se Dante fu il padre dell’italiano, il titolo di madre spetta certamente al siciliano”.
Professore, conosco molti siciliani che non si sentono a loro agio parlando in siciliano. Come mai i Siciliani usano la loro lingua solo con i familiari, i vicini e mai con gente che non conoscono?
“Da quando l’Italia fu formata definitivamente nel 1861, i governi italiani hanno tentato di far parlare gli Italiani in una lingua comune. Una cosa difficilissima considerando che i cosiddetti dialetti italiani sono numerosissimi e sono in effetti lingue che non hanno un esercito. La percentuale di persone che capiva la lingua di Dante e Petrarca nel 1860 era bassissima – dal 3% al 5% -, tutti gli altri parlavano la lingua regionale. L’italiano si imparava a scuola dove chi usava per sbaglio una parola dialettale veniva punito dai maestri, una cosa che accade tuttora. In questo modo l’uso del “dialetto” è stato stigmatizzato in maniera tale che parlarlo con estranei qualifica un individuo come analfabeta. Oggi un italiano che conosce solo il dialetto viene etichettato come semianalfabeta”.
Ma, Professore, cancellando la lingua di una regione, non ci sono effetti negativi sulla cultura di quella regione? Si sa che la lingua non è solo un insieme di parole. La lingua e la cultura sono parti integrali di un insieme che non si può separare. La lingua esprime la cultura.
“Certo! All’epoca della unificazione della penisola, qualcuno disse: “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”. Se ricordo bene fu Massimo d’Azeglio. Ebbene, nel fare gli Italiani purtroppo il metodo usato è stato quello di stigmatizzare l’uso del linguaggio locale e di cercare di coprire le enormi differenze che esistevano tra le regioni italiane. L’Italia era allora e continua in parte anche oggi ad essere venti nazioni diverse con lingue, costumi, tradizioni culinarie, sociali e architettoniche e standard di vita diversi. Palermo e Torino hanno pochissimo in comune. Cancellare i cosiddetti dialetti impoverisce il paese, amalgama le diversità, appiattisce la personalità. Ignazio Buttitta nella poesia “Lingua e dialettu” esprime il concetto che perdere la propria è equivalente a perdere la propria identità”.
Professore, su internet in America si vedono siti dedicati alla conversazione e allo studio del siciliano. Come spiega questo fenomeno?
“Forse questo interesse nasce dal desiderio di riconnettersi con le proprie radici. Le seconde, terze e quarte generazioni che ricorda qualche parola del siciliano parlato a casa dai nonni e dai parenti sente questo bisogno di riascoltare i suoni associati alla storia delle loro famiglie. Arba Sicula sicuramente ha contribuito a svegliare questo desiderio con le sue pubblicazioni che raggiungono tutti gli stati degli USA. Abbiamo almeno un socio in ogni stato. Per questo siamo stati all’avanguardia nella creazione di testi siciliani: ai nostri soci hanno creato il primo vocabolario siciliano/inglese e inglese/siciliano; abbiamo pubblicato fatto le prime vere grammatiche del siciliano con Joseph Privitera e Kirk Bonner, e infine con il mio Learn Sicilian/Mparamu lu sicilianu che è il primo libro di testo per un corso universitario. Sia il libro di Bonner, Introduction to Sicilian sia il mio Learn Sicilian hanno avuto molto successo negli Stati Uniti. Quest’ultimo è già terza edizione”.
L’interesse per il siciliano in America si manifesta ugualmente in Sicilia?
“Purtroppo, devo ammettere che in Sicilia, il problema è diverso. Negli ultimi tempi abbiamo visto un crescente interesse da parte del governo siciliano a promuovere l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Il Presidente della Regione Musumeci ha varato una legge che prevede l’insegnamento del siciliano in tutti i livelli delle scuole pubbliche: una iniziativa estremamente importante che applaudiamo con entusiasmo. Si è notato che i giovani siciliani usano il siciliano meno di prima. Il pericolo dell’estinzione esiste e bisogna correre ai ripari. Per questo motivo, il mio Learn Sicilian è stato adattato per uso di alunni di lingua italiana col titolo Mparamu lu sicilianu. La versione italiana del testo è stata tradotta dal prof. Alfonso Campisi dell’Universitè de la Manouba di Tunisi ed è già il testo per un corso sul siciliano insegnato da Campisi”.
Pur non essendo siciliana, so che in Sicilia esistono differenze tra le varie parlate locali. Come ha risolto il problema delle differenze tra palermitano e catanese, messinese e agrigentino?
“Questo è uno dei grossi problemi che bisogna risolvere prima di creare un testo che insegni il siciliano. La domanda che si pone è quale siciliano insegnare? Il palermitano, il catanese o il messinese? La mia risposta è tutti e tre e nessuno dei tre. Mi spiego: ammettiamo che cominciare dal palermitano o dal catanese possa essere una soluzione. Alla fine, gli studenti imparerebbero una lingua che non è presente nelle altre zone della Sicilia. Senza menzionare la scrittura di suoni particolari che si sentono a Palermo. Non ho mai visto, tranne in libri di fonetica, parole come cainni, moittu, e cuinnutu che sono le pronunzie locali per carne, morto, e cornuto. Un ragionamento simile potremmo fare per il catanese dove le stesse parole sono pronunziate canni, mottu, cunnutu. Se il professore insegna le stesse parole in una forma priva delle peculiarità locali scrivendole come carni, morti, curnutu e spiegando che le parole variano nella pronunzia secondo regole ben conosciute, si viene a creare una specie di koiné che eventualmente può dare le basi a un sistema linguistico e lessicale prevedibile e stabile. Spiegando il meccanismo che produce la pronunzia di cainni a Palermo e canni a Catania il problema diventa trasparente. Ogni volta che uno studente incontra una parola con il nesso r+ consonante come in curtu sa che a Palermo si pronunzierebbe cuirtu e a Catania cuttu. Allo stesso tempo non credo che ci siano siciliani che sentendo la pronunzia palermitana o catanese non capiscano che la parola è curtu. Per questo non credo che sia opportuno privilegiare una parlata sopra l’altra”.
Lei ha tradotto tanti libri dal siciliano. Meli, Martoglio, Veneziano, Zagarella, e tanti altri che provengono da diverse zone della Sicilia. La sua esperienza di traduttore è stata utile nella formulazione del lessico della grammatica?
“Il mio lavoro di traduttore mi ha fatto conoscere la lingua di Giovanni Meli, (Palermitano), Marco Calvino (Trapanese), Domenico Tempio (Catanese), Nino Martoglio (Catanese), Luigi Pirandello (Agrigento), Rosa Gazzara Siciliano (Messinese), Corrado Di Pietro (Siracusa), Maria Zagarella (Francofonte), Senzio Mazza (Linguaglossa) Nino De Vita (Marsala), e tanti altri di parti diversi. Il siciliano che uso nella grammatica è una specie di koiné. Quando in dubbio mi sono appoggiato alla mia di Francavilla nella provincia di Messina, ma non in maniera esclusiva. Ho cercato di non usare parole strettamente connesse col francavillese. Le faccio un esempio per illustrare questo punto. A Francavilla la parola per lucertola è nucetta che a quanto risulta dal vocabolario di Piccitto è l’unico paese della Sicilia in cui si usa questa parola. A Castiglione, a sei chilometri di distanza usano invece jaddamusa, usata pure in altri tre paesi del catanese. Ma né nucetta, né jaddamusa, possono competere con la forma più comune di lucetta usata nella maggior parte della Sicilia. Dal punto di vista lessicale lucetta mi pare più appropriata per lucertola e non nucetta o jaddamusa. Con questa procedura, usando il vocabolario di Piccitto o altri si potrebbero identificare parole comuni che non deviano molto attraverso la Sicilia, usandole come basi per il lessico del primo volume. I libri di testo delle lingue straniere per il primo corso utilizzano non più di mille vocaboli, scelti in base alla loro frequenza. Con questo sistema si ridurrebbero le differenze tra le parlate siciliane e si creerebbero i pilastri di sostegno sui quali costruire testi più complessi che rispecchino le peculiarità delle parlate. Lo stesso ragionamento ho fatto per le strutture grammaticali scegliendo solo quelle che possono essere applicate in maniera globale, riservando il trattamento delle peculiarità più difficili per un testo più avanzato”.
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