“I find in those people a very lively and intelligent industry: not to become rich, but to free themselves from troubles.”
Johann Wolfgang Goethe, “Journey to Italy”, 1816
Nome: Meredith
Cognome: Adamo
Nata a: Schenectady (Upstate New York)
Età: 28 anni
Ha studiato lingua italiana: presso la scuola di lingua italiana per stranieri L’Accademia di Cagliari; nella stessa città, ha frequentato anche il quarto anno della scuola superiore, con il supporto del Rotary International.
La storia di Meredith esula un po’ dal filo conduttore di questa rubrica, attraverso la quale ripercorriamo le tappe del “Viaggio di Goethe” in Italia. Un po’ perché questa giovane e carismatica ragazza americana ha studiato la lingua italiana in una terra, la Sardegna, che Goethe non visitò nel suo “Viaggio in Italia” (sebbene, in realtà, il “Regno d’Italia” nacque proprio dopo la guerra risorgimentale combattuta dal Regno di Sardegna, quindi la Sardegna ebbe un ruolo fondamentale nel conseguimento dell’unificazione nazionale italiana). Un po’ perché l’aspetto più interessante di questa storia è che Meredith è figlia di emigrati italiani negli Stati Uniti (da almeno tre generazioni) ed è l’unica figlia e nipote di tutta la famiglia che ha deciso di venire in Italia per imparare la lingua dei suoi avi e per conoscere la vera cultura italiana. Una storia toccante, nella quale molti italo-americani probabilmente si riconosceranno. Una storia fatta di successi e di lacrime ma anche di un legame forte tra USA e Italia che Meredith ha voluto ricucire investigando in prima persona sul proprio albero genealogico. Un regalo che ha fatto ai suoi parenti, a se stessa ma anche a noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerla tramite la scuola di lingua italiana di Cagliari “L’Accademia”, che ci ha messo in contatto con Meredith.
Meredith, il tuo cognome è “Adamo”. Sei italiana?
“Diciamo di sì, anche se non ho la vera e propria cittadinanza. La mia famiglia è italiana da almeno tre generazioni. I primi ad arrivare negli USA furono i miei trisavoli, che emigrarono negli Stati Uniti nel 1905. Quando arrivarono in America, loro non parlavano per niente inglese, ma solo il dialetto italiano delle città di provenienza. I miei nonni e mio padre, invece, non parlavano e non parlano tuttora italiano e, a oggi, sono l’unica in famiglia a conoscere la lingua italiana. I miei avi provenivano da Bellona (Caserta) e da Bracigliano (Salerno). Mio nonno era il penultimo di otto figli, nato negli USA e cresciuto nello Stato di New York, vicino alla frontiera con il Canada, nella città di Port Henry. Fino a qualche anno fa, non sapevo quasi nulla della storia della mia famiglia finché non decisi di fare delle ricerche utilizzando il sito di Ellis Island. Nel 2011, per il mio college, scrissi un documento dal titolo “Italiani, Immigrazione e Identità”, che era un’indagine sull’immigrazione italo-americana degli inizi del XX secolo e che ho utilizzato come strumento principale per ricostruire le mie origini italiane.
Tra il 1880 e il 1924, oltre quattro milioni di italiani lasciarono la propria terra d’origine in Italia e migrarono negli Stati Uniti. I genitori di mio nonno e i nonni di mia nonna erano tra questi quattro milioni di persone che lasciarono l’Italia meridionale e attraversarono l’Oceano Atlantico con la speranza di trovare migliori opportunità economiche in America. Ma, nel processo della migrazione, gran parte della loro identità culturale andò persa. Le loro abitudini cambiarono, i loro nomi furono modificati e il loro linguaggio scomparve. Il processo di “americanizzazione” che interessò la mia famiglia e milioni di altre famiglie italiane emigrate negli USA fu, senz’altro, essenziale per il loro successo economico e per l’integrazione, ma comportò la perdita dell’identità italiana per le generazioni successive. In tal senso, quando da piccola dicevo di essere italiana, mi rendevo conto di sapere poco di cosa in realtà questo significasse. E l’indagine che portai a termine nel 2011 nacque proprio dal profondo desiderio di capire chi io fossi e chi fossero i miei antenati, in quel momento e storicamente. Il mistero della mia famiglia mi ha sempre intrigato, ma in un certo senso anche rattristato perché mi mancavano moltissime informazioni e le mie idee erano confuse. A volte, il fatto di rivendicare le mie radici italiane mi appariva quasi come un inganno che facevo a me stessa perché, in un certo senso, mi sentivo profondamente disconnessa da quella realtà, nonostante i miei avi fossero italiani. Prima di iniziare questa ricerca, sapevo che la famiglia di mio padre proveniva dall’Italia, ma non conoscevo il cognome di due dei miei bisnonni. Figuriamoci se sapessi da quale parte dell’Italia provenissero! Decisi, dunque, di portare alla luce la storia dei miei avi, con la speranza di risalire al passato più lontano e di scoprire i luoghi del sud Italia da cui essi provenissero. Quando trovai i documenti nella casa dei miei nonni e i nomi dei passeggeri sul sito di Ellis Island, capii subito che non sarebbe stato sufficiente rintracciare i nomi e le località. Si trattava di nomi di persone e di città decontestualizzati, che non significavano nulla per me. Così, decisi di indagare sulle condizioni dell’Italia dopo il 1900, nel tentativo di capire le motivazioni che spinsero allora i miei antenati a lasciare la propria patria e studiai anche l’ambiente in cui si essi si ritrovarono, al loro arrivo in America. Feci molte domande ai miei nonni e trovai un’intervista registrata che mio padre e mio nonno fecero a una lontana prozia (Anna Salerno) e misi a confronto le loro storie con il contesto storico che avevo, intanto, ricostruito. Attraverso la raccolta di tutte queste informazioni, fui in grado di costruire un’approfondita analisi della storia della mia famiglia nel contesto della loro immigrazione in America e della loro assimilazione nella cultura americana”.
Ci sono degli episodi della storia dei tuoi avi che ricordi in maniera particolare?
“Sì, uno in particolare. Quando mio nonno fece il servizio militare negli Stati Uniti – dal 1953 al 1955 -, ebbe l’opportunità di andare in Italia e lì cercò alcuni parenti di suo padre. Sua sorella gli mandò alcune lettere che il cugino di loro padre, Luigi, aveva scritto alla famiglia e mio nonno si recò all’indirizzo che era riportato su quelle lettere, che lo portò nella città di Napoli. Arrivato alla porta di casa del parente italiano, questi in un primo momento non credette che mio nonno fosse il figlio di Luigi, ma quando vide le lettere scritte di sua mano, mio nonno fu immediatamente accolto a braccia aperte. “Li ha letti una volta e mi ha guardato; li ha letti di nuovo e mi ha riguardato. E dopo è stato un ritorno a casa”: così mio nonno descriveva quel momento quando lo raccontava ai suoi figli e a noi nipoti.
In linea generale, posso dire che ciò che più mi ha colpito è il fatto che gli immigrati italiani abbiano dovuto affrontare molte lotte post-immigrazione che hanno inibito le loro capacità di avvicinamento alla cultura americana e hanno reso piuttosto difficile il loro iniziale periodo di vita negli Stati Uniti. Le lotte economiche erano un ostacolo costante, poiché molti immigrati arrivavano sulle rive dell’America già in debito con il pagamento della tariffa transatlantica. La povertà era un peso costante. L’analfabetismo complicava le cose, dal momento che la maggior parte degli adulti immigrati mancava di qualsiasi tipo di istruzione formale e, almeno all’inizio, l’educazione per i propri figli non era vista come una priorità. Per gli immigrati italiani la barriera linguistica fu probabilmente l’ostacolo più difficile da superare, anche perché molti si sforzavano poco per imparare la lingua inglese, pensando che negli Stati Uniti sarebbero rimasti solo temporaneamente. Per quanto poca comunicazione avessero con gli americani, gli italiani potevano comunque sempre contare sui “padroni” (persone che vivevano sul posto e facevano da intermediari con gli americani, anche da un punto di vista linguistico). L’uso della lingua italiana creava un senso di solidarietà tra gli italiani e parlare nella propria lingua permise loro di mantenere un’identità etnica e li unì, nonostante le lotte interne. Se i genitori di mio nonno parlavano pochissimo inglese così come i nonni di mia nonna, i miei nonni e i loro fratelli, però, ricevettero una buona educazione scolastica e parlavano correttamente l’inglese. Questo passaggio segnò un cambiamento nella cultura e nello stile di vita dall’immigrato italiano all’italo-americano. Col passare del tempo, l’inglese cominciò, infatti e inevitabilmente, a insinuarsi nella lingua usata dagli immigrati. Poiché la lingua italiana variava considerevolmente a seconda della regione in cui era parlata, gli immigranti non istruiti spesso mancavano di conoscenza dello standard italiano e parlavano solo il dialetto della propria provincia. Pertanto, non erano in grado di comunicare efficacemente con gli italiani che provenivano da altre parti della penisola. Per cercare di risolvere questa problematica, gli emigrati crearono il cosiddetto “Italglish”, una lingua italiana nella struttura ma con una pletora di parole inglesi. Tale linguaggio consentiva agli immigrati di comunicare, anche se in modo approssimativo, con gli americani, fungendo al contempo da denominatore linguistico comune per coloro che provenivano da diverse regioni d’Italia e che, senza questo linguaggio, non si sarebbero mai capiti. Questa “neolingua” era caratterizzata da parole e frasi inglesi con una pronuncia italianizzata, ad esempio boifrendo (fidanzato), bosso (capo), mi file gudde (mi sento bene), sciaddappa tu mauta (chiudi la bocca), orriope (sbrigati), ecc. Con il passare dei decenni, l’italiano veniva parlato sempre meno tra i membri della famiglia, fino a quando non fu completamente dimenticato. Persino l’“Italglish” si usò sempre meno, ma ciò rappresentò un vantaggio nel processo di americanizzazione degli immigrati, poiché inizialmente si temeva che l’idioma avrebbe per sempre isolato gli italiani dalla completa integrazione nella società americana. Anche il cognome della mia famiglia subì un cambiamento significativo. Il mio bisnonno arrivò sulle rive degli Stati Uniti con il nome di “Luigi Adamo”, ma vent’anni dopo il suo nome si trasformò in “Louis Tom”. I suoi primi figli nacquero con il cognome “Adamo” sui propri certificati di nascita, ma dopo i primi anni del ‘900, gli altri figli portarono il cognome “Tom” (incluso mio nonno). A oggi i miei parenti non sanno quale fosse stato il motivo alla base del cambiamento del cognome. La mia prozia Anna Salerno credeva che il fratello di mio nonno Dominick (il cui nome sul certificato di nascita era “Dominico Atom”) avesse cambiato il cognome durante il servizio militare, ma mio nonno era completamente in disaccordo con questa teoria. Tuttavia, quando nacque mio padre, tutta la famiglia acquisì il cognome “Tom” e i nomi italiani dei miei familiari furono sufficientemente americanizzati. Quando mio padre si laureò – all’età di 22 anni, nel 1981-, decise di cambiare legalmente il suo cognome con la forma originale italiana, “Adamo”. Anche un altro dei cinque fratelli di mio padre decise di fare la stessa cosa. Così, io sono nata con il cognome “Adamo”, insieme a mia sorella e a tre figli di mia zia (che portano il cognome “Adamo” accanto a quello del padre). Mio nonno mi diceva sempre che era incredibilmente orgoglioso di mio padre e di mia zia per il fatto che avessero preso l’iniziativa di cambiare il loro cognome in “Adamo” e che non si sentiva affatto offeso del fatto che avessero abbandonato il precedente cognome legale. Mi diceva anche che avrebbe volentieri pagato il cambio di nome a ciascuno dei suoi figli, se solo loro lo avessero voluto. E che aveva sempre desiderato di cambiare anche il suo. La rinuncia alla cittadinanza italiana per ottenere quella americana rappresentò, infine, il conclusivo atto legale del processo di americanizzazione”.
All’età di diciotto anni sei venuta in Italia per frequentare il tuo quarto anno delle scuole superiori, nella città di Cagliari. Che cosa ha significato per te questa scelta?
“Sin da piccola, ho avvertito l’esigenza di toccare con mano le mie radici italiane e ho voluto cominciare il mio percorso vivendo per un anno in Italia, in una piccola frazione vicino Cagliari, chiamata “Poggio dei Pini”, dove ho frequentato un anno delle scuole superiori, ospitata da alcune famiglie italiane. La vita e le storie delle famiglie italiane mi sembravano così lontane e sentivo il bisogno di vivere quella parte dell’Italia “vera” che con i miei parenti italiani in America non avevo potuto vivere. Per questo, una volta maggiorenne, andai a studiare in Italia con il “Rotary International”, un’organizzazione internazionale con più di 33.000 Rotary clubs in tutto il mondo, che si occupa e facilita lo scambio di giovani. Rimasi in Italia per dieci mesi. Non conoscevo per nulla la lingua italiana e le famiglie italiane che mi ospitavano parlavano solo in italiano, quindi in poco tempo fui in grado di capire e di esprimermi senza grosse difficoltà. Studiavo al liceo scientifico e ciò all’inizio mi aiutò molto perché per studiare chimica e matematica l’italiano non serviva! In più, i miei compagni di classe erano eccezionali e mi aiutavano a capire anche alcuni piccoli dettagli culturali, come il fatto che ai docenti mi dovessi rivolgere dando del Lei. Cagliari è stata ed è la mia casa italiana, l’unica città dell’Italia che ho conosciuto bene. La Sardegna per me è amicizia, famiglia, profumi, gentilezza e infinita bellezza. Paradossalmente, provenendo da una piccola cittadina americana, mi sono ritrovata in una città per me anche troppo “moderna”: appena arrivata in Italia, ricordo che mi muovevo con una mappa cartacea e che ero affascinata dai pullman che si muovevano dalla città ai paesini limitrofi e viceversa, perché negli USA non ne avevo mai preso uno…insomma, posso dire di aver fatto un percorso totalmente atipico rispetto agli americani che di solito vanno a studiare in Italia! Dopo qualche mese nel “Bel Paese”, ho sentito l’esigenza di studiare la lingua italiana in maniera più approfondita e mi sono rivolta all’“Accademia” di Cagliari, una scuola in cui mi sono trovata molto bene per la competenza e gentilezza degli insegnanti e presso la quale ho anche conseguito la certificazione linguistica di livello B2. Una volta rientrata negli USA, mi sono iscritta all’università negli Stati Uniti e ho iniziato a studiare Medicina nella Brown University della città di Providence (la città), nello stato di Rhode Island, presso la quale mi laureerò a maggio. Ma, prima di laurearmi, tornerò in Italia per un tirocinio di un mese presso l’ospedale di Sant’Orsola a Bologna. Sono molto contenta di aver imparato quella lingua che i miei nonni e mio padre non avevano potuto conoscere e posso dire con certezza che mio nonno è stato molto fiero di me perché ho, in qualche modo, recuperato l’eredità che i miei avi furono costretti a perdere in cambio di opportunità. Me lo chiedeva la mia coscienza, me lo urlavano le mie radici. Ed era mia responsabilità quella di annullare il sacrificio dei miei parenti, recuperando la loro storia e la loro lingua, che trasmetterò anche ai miei figli”.