Dopo le polemiche sull’abitudine dell’uso dell’inglese da parte degli italiani in Italia abbiamo intervistato il professor Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca dal 23 maggio 2014. Al professore abbiamo chiesto quali sono i problemi che si affrontano oggi con la lingua italiana all’università e qual è il futuro della nostra lingua in Italia. Il professor Marazzini svolge attività giornalistica: dal 1990 è titolare della rubrica di lingua “Parlare e scrivere” sul settimanale “Famiglia cristiana”, ed è stato titolare di una rubrica linguistica sul mensile “Letture” fino alla chiusura della gloriosa testata. Ha scritto inoltre opere rivolte alla scuola, uscite presso Zanichelli, SEI, D’Anna.
Il professor Marazzini è autore di circa duecento pubblicazioni. Nella sua produzione si contano libri, saggi in riviste nazionali e internazionali, edizioni critiche. I suoi lavori hanno sviluppato temi di storia della lingua italiana, della questione della lingua, della storia linguistica regionale, toccando i rapporti lingua-dialetto, il linguaggio letterario, la cultura popolare, la storia della linguistica, la storia della grammatica e della lessicografia, le teorie linguistiche, la storia dell’insegnamento, la storia delle idee linguistiche e la politica della lingua. Un suo libro, La Rilegatura artigianale e d’arte (Bologna, Zanichelli, 1986), è estraneo alla lingua e alla linguistica (salvo per il glossarietto finale), e si collega invece alla passione di bibliofilo.
Professor Marazzini, durante la sua carriera come titolare della cattedra di Storia della lingua italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università del Piemonte Orientale ha avuto tanti allievi; perché i giovani arrivano nelle università con forti lacune linguistiche, soprattuto nello scritto?
“Va rilevato che non tutti gli studenti arrivano all’università con un deficit nelle capacità di scrittura; ce ne sono molti con ottime qualità e attitudini. Il problema, forse, sta nel fatto che in Italia non riusciamo a separare le carriere scolastiche dei migliori da quella dei peggiori, e dedichiamo quasi tutta la nostra attenzione al recupero costante, continuo (e il più delle volte inutile) delle persone che invece andrebbero dirette in una direzione diversa, non verso gli studi, ma verso una formazione di tipo professionale. Va anche rilevato e il deficit di capacità non riguarda solo la scrittura, ma anche l’oralità. Spesso confondiamo gli atteggiamenti di sicurezza, che senz’altro i giovani hanno, perché hanno incontrato sempre una società che ha reso loro la vita facile, con la vera capacità di comunicare oralmente: il deficit lessicale incide sicuramente anche sulle capacità di comprensione e comunicazione dell’oralità”.
L’impoverimento linguistico lo si attribuisce ai mass media. Secondo i suoi studi è davvero colpa dei mezzi di comunicazione oppure è un problema di chi li adopera?
“L’impoverimento è dovuto più ai social che all’impoverimento dovuto più che ai mass media in generale, e sicuramente incide in particolari circostanze: per esempio nel momento in cui una campagna elettorale come quella in corso rischia di decidersi a colpi di battute o comunicazioni di 140 o 280 caratteri; di per sé, i media non sono così nocivi, non tutti, almeno; per esempio, i giornali sono dei media, eppure nei giornali si trovano ottimi esempi d’uso della lingua italiana in forma argomentata ed elegante”.

Si nasce con il dono della scrittura? E’ una qualità innata saper raccontare per iscritto oppure è il frutto di un continuo esercizio?
“Non è facile rispondere: temo che una qualche forma di predisposizione biologica o legata alle condizioni sociali (per es. una famiglia colta) esista davvero. Forse esiste, perlomeno. Questo, naturalmente resta da dimostrare in forma scientifica. Comunque, anche se si nasce con qualche vantaggio naturale, o svantaggio, una buona educazione e una buona formazione possono porre rimedio alle lacune e possono valorizzare le doti che già esistono. Quindi sicuramente una buona educazione alla scrittura è fondamentale, così come una buona educazione alla comunicazione orale”.
Quanto è importante saper usare il congiuntivo nell’ italiano scritto e parlato?
“Al di là del fatto che il congiuntivo è in regresso, cioè è in crisi nell’uso comune dell’italiano della conversazione, saperlo usare resta fondamentale, perché chi non lo sa usare (cioè non ne conosce l’esistenza e la funzione) è privo della possibilità persino di interpretare testi scritti di qualità. Inoltre non può recepire nel modo giusto i discorsi degli altri, i discorsi di coloro che il congiuntivo ancora lo usano. Diciamo che chi non sa usare il congiuntivo parla un italiano da semicolto. Purtroppo c’è qualcuno in queste condizioni anche tra coloro che vogliono guidare politicamente l’Italia“.
Il linguaggio politico è pieno di parole straniere. Sono termini di passaggio, di breve durata oppure rimarranno per sempre nella lingua italiana?
“Il linguaggio politico adotta le parole straniere soltanto in seconda battuta, per imitazione di quanto accade altrove. La vera fonte di diffusione dei forestierismi sta nella tecnologia, nel mondo dell’industria e della finanza. Soltanto in seconda battuta i politici arrivano a recuperare questo materiale e cercano di riciclarlo ai fini della loro propaganda elettorale, o lo includono nei programmi e nelle promesse che vogliono rendere credibili agli elettori”.
Secondo il “Grande dizionario italiano dell’uso” di Tullio De Mauro gli italiani hanno a disposizione circa 270.000 termini. Perché gli italiani usano parole straniere se possiedono una lingua ricca di termini? Sono forse più problematiche da imparare le parole italiane?
“Non c’è nulla di male nell’utilizzare parole straniere, quando sono utili e intelligenti, per esempio quando un sono frutto di una tecnologia più avanzata della nostra. È ovvio che in italiano il Wi-Fi si chiama Wi-Fi, perché non l’abbiamo inventato noi, è giunto come un’invenzione di altri, con un nome dato da altri. Il problema sta in qualche cosa di molto diverso, cioè nell’uso di parole forestiere per indicare quello che anche da noi c’è, ha già un nome, e si capirebbe benissimo con il nome italiano. Distinguerei dunque tra un uso stupido degli anglicismi, e uso necessario e intelligente degli anglicismi stessi. Tra gli anglicismi stupidi citerò l’uso continuo di food per cibo, di location al posto di luogo posto sito (lo si trova in molte recensioni di Trip Advisor), l’uso di step per indicare i gradi o progressi in tutti i campi, e di mission per indicare uno scopo, e addirittura l’uso di parole come maladministration per indicare la “cattiva amministrazione”, quando malamministrazione o cattiva amministrazione esistono in Italia almeno fin dai tempi degli affreschi senesi del Lorenzetti Il buon governo e Il cattivo governo. Eppure maladministration è stato utilizzato addirittura dall’Autorità anticorruzione in un documento pubblico e ufficiale: veramente qualche cosa di cui ci si dovrebbe vergognare”.
Cosa consiglia agli studenti stranieri che cercano di risolvere i loro dubbi sul futuro della lingua italiana?
“Il fatto stesso che ci siano studenti stranieri che si interessano all’italiano, vivendo in altri continenti o in altre nazioni, può aiutare gli italiani a prendere coscienza del valore della propria lingua, del fatto che non è per nulla una lingua disprezzata nel mondo. Agli stranieri consiglierei dunque di illustrare agli italiani i motivi per cui si sono avviati sulla strada dell’apprendimento dell’italiano. Sarà come un’iniezione di fiducia”.
Secondo i suoi studi e le sue analisi quali saranno i cambiamenti e quale sarà il futuro della lingua italiana?
“È probabile che ci sia ancora un aumento delle parole forestiere, ovviamente parole inglesi. È probabile che ci sia una semplificazione di molte forme sintattiche, ancora una diminuzione del congiuntivo e forse anche del futuro (“domani vado” al posto di “domani andrò”); si profila una semplificazione del sistema dei pronomi, cioè la stabilizzazione e generalizzazione anche nella comunicazione formale di forme come gli per indicare a lei – a lui – a loro. Sostanzialmente, comunque, l’italiano dovrebbe mantenere un saldo rapporto con la propria tradizione colta, per quanto oggi ciò possa costituire un impaccio. I destini dell’italiano si giocano non tanto su piccoli cambiamenti lessicali, morfologici o sintattici, ma sul ruolo che la società italiana intende assegnare alla propria lingua nazionale, perché i veri motivi di crisi stanno proprio in questo: nel fatto che molte volte gli italiani sono i primi (e i soli) a mettere da parte la propria lingua. Si tratta di una colpa di cui si macchiano di fronte alla storia”.