Leggo sempre con interesse gli articoli su La Voce di New York. La settimana scorsa ne è apparso uno che ho trovato interessantissimo, ma non perché lo condividessi. Tutt’altro. Ma perché rappresenta le posizioni che alcuni connazionali hanno sul rapporto tra l’italiano e l’Italia da una parte, e l’inglese e il mondo anglosassone dall’altra.
Sto parlando di “Fermiamo, vi prego, chi vuole gli italiani schiavi della lingua degli altri”, di Giorgio Pagano, esperto di Economia linguistica (una materia di cui fino a quel momento ignoravo l’esistenza, devo confessare).
Pagano inizia l’articolo prendendosela con la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, rea, a suo dire, di aver permesso un bando che richiedeva la redazione “in lingua inglese” delle domande per dei progetti di ricerca. Tuona Pagano: “Se la Fedeli vuole finanziare la ricerca italiana in inglese la deve pagare coi suoi soldi e, se i ricercatori italiani vogliono fare ricerca in inglese, se la devono far pagare dalla Regina Elisabetta, insieme allo stipendio da ricercatore.”
Trovo questo, così come tutto ciò che è scritto nell’articolo, assai poco condivisibile. Per questo ho chiesto al direttore del giornale, Stefano Vaccara, di dare spazio a un mio intervento per controbattere. Ed eccomi qua. Parto con la considerazione più ovvia: l’inglese è, a tutti gli effetti, la lingua globale. Scegliete un aeroporto a caso sul pianeta terra. Una volta atterrati, se avrete domande, troverete qualcuno che parla inglese (perfino se siete capitati in Francia, giuro!)
Prendete il taxi in un paese caraibico. L’autista, pur dal basso della sua carente scolarizzazione, saprà dirvi “No credit card, Señor. Twenty dollars, please”.

Se arrivate in hotel in un paese del vecchio blocco sovietico, potrete sbrigare il check-in in pochi minuti alla reception grazie alla lingua di Shakespeare, “Lift is at your left, Sir”.
Se per caso, poi, una volta giunti in stanza, non funzionasse il riscaldamento, la padronanza del russo darebbe molto credibilità alle vostre lamentele, ma in mancanza di quello, l’idioma dei sudditi di sua maestà farà comunque alla bisogna.
E questo naturalmente riguarda situazioni comuni per turisti e viaggiatori. Se ci spostiamo al mondo della cultura e della scienza, oggigiorno non ci si può definire uomini (o donne) di cultura o di scienza senza una discreta conoscenza dell’inglese quantomeno scritto. Spesso, libri importanti escono in italiano solo con molto ritardo. La letteratura scientifica è prodotta per la maggior parte in inglese e la partecipazione al consesso di scienziati e ricercatori si esplica anch’essa nella lingua di Bertrand Russell nella sua totalità.

Potrei continuare all’infinito con gli esempi, ma il concetto è chiaro. Il mondo parla inglese! Fine. L’idea che un’altra lingua (oppure una lingua artificiale come l’esperanto, altro cavallo di battaglia del Pagano, a quanto pare) possa rimpiazzare un giorno lo standard de facto fa tanta tenerezza, ma all’atto pratico occorre guardare in faccia la realtà: non si realizzerà mai. Rendere più difficile l’apprendimento dell’inglese agli italiani, poi, è addirittura dannoso. Si rischia di rendere i ricercatori italiani meno capaci dei loro colleghi francesi, tedeschi e spagnoli di partecipare al progresso scientifico mondiale.
Con queste considerazioni potrei terminare qui il mio intervento e concludere che la ministra Fedeli avrà avuto i suoi buoni motivi se ha richiesto che le domande di progetto fossero in inglese. Ma non chiudo qui. Voglio anzi cogliere l’occasione per trarre qualcosa di positivo dalla discussione. Cerchiamo di focalizzare ciò di cui si parla.
Pagano usa espressioni quali: “asservimento anglofono delle menti”, “dominare la lingua di un popolo”, “togliergli province e territori”, “schiacciarlo con lo sfruttamento”, “Gli imperi del futuro sono quelli della mente”. Al solito, quando uno legge questi paroloni usati per evocare immagini potenti, la prima domanda da farsi è se ci sia un tentativo dell’autore di creare un “framing” mentale che distolga il lettore da un’analisi razionale di ciò di cui si sta discutendo.

Anche se Pagano non usa direttamente l’espressione “impero del male”, è ovvio che tale idea sia il fondamento su cui poggiano i suoi ragionamenti contro “l’impero” dedito “all’asservimento anglofono delle menti”, espressioni, queste sì, presenti nei suoi articoli.
Ma è davvero così? Davvero esistono imperi del male dediti a soggiogare altri popoli imponendo la loro lingua come parte di un progetto predefinito?
La risposta è sicuramente no. Non c’è un “disegno malvagio” dietro questa situazione. L’inglese ha goduto di tanta popolarità per alcuni motivi semplici e ben noti. Era la lingua dello sconfinato Impero Coloniale Britannico e anche la lingua di una superpotenza uscita vincitrice della seconda guerra mondiale, gli USA. Unite a tutto questo un’ampia produzione letteraria, musicale e cinematografica di altissimo livello per un secolo intero. Sigillate il tutto con l’arrivo di una rete telematica mondiale in grado di mettere in comunicazione tutti gli essere umani et voila.. il gioco è fatto. Abbiamo una lingua comune mondiale de facto! Detronizzarla? Praticamente impossibile.
Cosa volete farci? C’era una posizione aperta per “lingua globale”. La lingua inglese aveva il curriculum giusto al momento giusto e quel ruolo le è spettato.
Giusto per dirne una, 2000 anni fa toccò agli antichi romani imporre lingua e cultura ai popoli vicini (e non pubblicando Harry Potter, ma dando delle grandi mazzate a chiunque provasse ad opporsi).
Per dirne un’altra, più della metà delle parole inglesi proviene dal latino più o meno direttamente. Insomma, non è propriamente una cultura estranea alla nostra quella anglosassone.
Infine, giusto per dirne un’altra ancora, se uno degli stati totalitari avesse avuto la meglio nel secolo scorso, sarebbe il russo o il tedesco la lingua egemone del pianeta. In quel caso, dubito che Pagano potrebbe proporre così liberamente le sue tesi contro l’imperialismo linguistico, così come fa ora scagliando dardi e saette contro l’inglese, da “La Voce di New York”, un giornale americano “protetto dal primo emendamento della Costituzione USA”.
Preso atto della situazione, la domanda è “Come dovrebbero comportarsi gli italiani (e gli altri popoli non-anglofoni) davanti a questo fenomeno?”
L’idea di chiudersi agli influssi culturali (e linguistici) del mondo anglosassone per difendere la propria cultura può affascinare alcuni. All’atto pratico, però, sarebbe come accontentarsi di fare la parte del nonno un po’ rinco. Ogni tre mesi i nipoti vanno a trovarlo e quello imbastisce le sue filippiche contro la modernità. I nipoti hanno imparato a dirgli sempre “Sì, nonno”. Poi vanno al cinema, o a qualche festa piena di belle ragazze o al concerto degli U2, lasciando il nonno solo soletto a casa a guardarsi le repliche dei programmi di Pippo Baudo.

Un paese come l’Italia ha le carte in regola per fare molto meglio di così. E la strada maestra è quella di aprirsi, non di chiudersi, al resto del mondo. Il che, ovviamente, non significa rinunciare alla propria cultura e identità, ma semplicemente farle coesistere con la modernità.
Personalmente, penso che l’apertura favorirebbe anche la lingua italiana. Come argomentavo in passato, l’Italia avrebbe tutto da guadagnare nel promuovere un uso della lingua italiana concreto e produttivo, diverso dalle forme arzigogolate e ampollose che sono talvolta additate come stile elevato. Non ha molto senso insegnare un italiano aulico e scevro da influssi stranieri in un paese in cui il degrado della convivenza civile (fenomeno del tutto autoctono!) porta perfino politici di primo piano a usare espressioni dialettali e volgari con regolarità. Se la scelta è tra sonetto in rima baciata e il “rutto libero”, meglio un modello di lingua più semplice e accessibile, ma al tempo stesso corretto e rispettoso, come quello che ci viene insegnato da inglesi e americani. Una lingua impostata in quel modo sarebbe inerentemente più adatta alla vita democratica di un paese. Una lingua non elitaria, ma al tempo stesso rigida nell’esigere moderazione e rispetto da parte di tutti. Una maggiore esposizione all’inglese sarebbe un buon passo in quella direzione.
Vi è poi un discorso economico. La conoscenza dell’inglese ha la potenzialità di essere un catalizzatore per gli investimenti stranieri molto più di quanto sia una minaccia per la cultura locale. Quante più risorse finanziarie e umane riusciremmo ad attirare in Italia se il paese fosse maggiormente allineato con usi, costumi e senso civico anglosassoni e nord-europei? E quanti più turisti si spingerebbero nel bel paese sentendosi sicuri e sapendo che la comunicazione non sarebbe generalmente un problema?
Qualcuno obietterà che istruire un popolo alla comprensione dell’inglese non sia un compito facile. A questo penso di poter rispondere agevolmente. La differenza la fa l’esposizione alla lingua inglese su base quotidiana. Basta osservare i paesi stranieri. Quelli in cui i film vengono doppiati tendono ad avere bassa comprensione della lingua inglese tra la popolazione. Tra questi Francia, Spagna e, ovviamente, l’Italia. Al contrario, i paesi che non doppiano i film (sovrapponendo semplicemente i sottotitoli all’audio originale) vedono percentuali intorno al 80-90% di abitanti in grado di esprimersi bene in inglese. Tra questi, Olanda, Belgio, Estonia e, notoriamente, i paesi scandinavi.
Ovviamente, oltre ai film doppiati, c’è anche la correlazione con l’avere una lingua germanica come base di partenza, e su quello c’è poco da farci. Ma sul lato dei film e dei contenuti televisivi la soluzione è a portata di mano. Basterebbe imporre per legge che almeno il 50% dei contenuti trasmessi da ogni canale televisivo fosse in lingua originale con sottotitoli (esentando magari i cartoni per i più piccini come fanno in Scandinavia). Il gap linguistico con gli altri paesi nord-europei verrebbe colmato nel giro di una mezza generazione!
Conclusione
La storia dell’umanità è un’evoluzione continua. Che piaccia o no, l’inglese e la cultura anglosassone si sono affermati come standard di fatto globale da un bel pezzo. Alcuni invocano la chiusura all’inglese come difesa di una certa concezione di cultura e identità italiane. A questi rispondo che quella è una battaglia di retroguardia. L’Italia ha molto di più da guadagnare facendo di necessità virtù, e accettando senza indugi il ruolo dell’inglese come lingua comune del nuovo mondo globalizzato.