“Quando cerco di descrivere ad altri la mia esperienza, uso la metafora della teiera. Come una teiera, ero sul fuoco e l’acqua bolliva; lavoravo sodo per gestire i problemi e fare del mio meglio. Ma dopo vari anni l’acqua era tutta evaporata e tuttavia io ero ancora sul fornello; una teiera bruciata che rischiava di spaccarsi”. –Carol B. Assistente sociale (Maslach, 1992)
Oggi si legge molto sulla sindrome del burnout, il temine inglese che tradotto in italiano significa bruciare emotivamente o esaurire le proprie energie fisiche e mentali. Questo termine è accreditato allo psicologo statunitense Herbert Freudenberger, il quale nel 1974 lo ha incluso nel lessico della ricerca scientifica. La sindrome del burnout si può definire come perdita di motivazione nel lavoro con crescente senso di esaurimento emotivo, accompagnato da disinteresse personale e professionale.
Herbert Freudenberger aveva osservato i professionisti in una clinica di igiene mentale nella città di New York: volontari, assistenti sociali, e psicologhi, i quali con il passar del tempo perdevano le loro energie fisiche e mentali fino a ridurne le loro capacità specialistiche e personali. Infatti, secondo Freudenberger, i professionisti che in precedenza erano idealisti molto motivati con il tempo apparivano stressati, stanchi, e si sentivano offesi o irritati dai pazienti della clinica. In più, non riuscivano a distinguere o a separare la propria vita da quella delle persone per cui lavoravano o stavano aiutando.
Un anno dopo, nel 1975, il termine è stato ripreso dalla psichiatra americana Christina Maslach per indicare una sindrome della quale soffrono i professionisti particolarmente coinvolti nelle relazioni umane. La dottoressa Maslach, professoressa emerita dell’Università della California, Berkeley, iniziò a studiare questo fenomeno negli anni 70 con una serie di interviste approfondite dirette ai dipendenti delle organizzazioni di servizio pubblico. Dallo studio, Maslach e colleghi notarono che gli impiegati facevano spesso riferimento a profonda stanchezza emotiva, negatività diretta ai clienti e ai pazienti, e spesso anche crisi di competenza professionale. Simili ai sintomi della depressione, il burnout asfissiava sia le loro ambizioni e sia l’idealismo e il senso del valore della gente.
Completato lo studio, nel 1976 C. Maslach pubblica l’articolo “Burned-Out” sulla rivista “Human Behavior”, il quale genera un’enorme attenzione da parte del pubblico. In seguito C. Maslach ha elabora una scala per misurare il burnout: un questionario di 22 domande che stabilisce se nell’individuo sono attive dinamiche psicofisiche che rientrano nella sindrome. Le persone colpite dal burnout manifestano sintomi aspecifici: irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia; sintomi somatici che includono tachicardia, cefalee, nausea; sintomi psicologici come depressione, bassa stima di sé, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia e risentimento, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo. Questi situazioni di disagi fisici e psicologici spesso inducono molti professionisti ad abusare alcool o farmaci per sopprimere i sintomi.
Oggi i rischi correlati alla sindrome del burnout sono la causa che spingono molti docenti ad abbandonare la loro professione. Infatti lo stress nelle scuole pubbliche spesso non è gestibile e molti insegnanti di conseguenza si ammalano al punto di non poter continuare il loro lavoro. Le cause sono tante, una sarebbe l’enorme responsabilità che i docenti di oggi sono forzati ad assumersi. Per esempio, i giovani hanno l’obbligo di frequentare la scuola fino all’età di 16 anni ma non sempre gli studenti entrano nelle classi per imparare, e cosi i docenti si trovano giorno dopo giorno con alunni che non si concentrano e non hanno nessuna motivazione per istruirsi, ma i docenti sono responsabili del loro apprendimento. Sono ragazzi che nessuno ascolta o accudisce e gli insegnanti devono non solo insegnare ma fare anche da consiglieri, psicologi, e assistenti sociali, ruoli per i quali non sono preparati ma allo stesso tempo sono costretti a prepararsi in fretta e poter gestire ragazzi arrabbiati, violenti, e ineducati. Trovare equilibrio tra dirigere una classe e insegnare una materia non è per niente facile e allo stesso tempo molto stressante.
Eppure sono molti i docenti che credono ancora in questa professione, rimboccandosi le maniche e completando ore di aggiornamento per migliorarsi con la didattica e con lezioni create tramite l’uso della lavagna interattiva multimediale, e altre innovazioni istruttive. Ma la sfida più grande di ogni docente è diventare un esperto delle diagnosi degli alunni, come i disturbi nell’apprendimento, DSA, l’ADHD, il Bisogno Educativo Speciale, BES, il Piano Didattico Personalizzato per studenti con svantaggio socio-culturale, PDP, e il Piano Educativo Individualizzato, PEI.
Secondo molte fonti, di cui ne includo una, in Italia nel 2016 gli studenti diagnosticati con difficoltà di apprendimento (DSA) hanno rappresentato il 2% della popolazione scolastica. Una grande difficoltà per il lavoro dei docenti, anche perché nelle diagnosi spesso sono inclusi farmaci per controllare gli impulsi di comportamento dei ragazzi ribelli, e i docenti devono studiare e conoscere molto bene i loro alunni. E’ ovvio che il troppo lavoro mentale e l’urgenza di imparare nuove norme in breve tempo creano stress e bruciano l’energia fisica ed emotiva degli insegnanti, e quindi la sindrome del burnout è inevitabile anche per i docenti più qualificati. La psichiatra Maslach afferma che il burnout colpisce in particolare i docenti, ma anche persone che lavorano in ambienti sociali e sanitari, come medici, psicologi, assistenti sociali, esperti di orientamento al lavoro, fisioterapisti, operatori dell’assistenza sociale e sanitaria, infermieri, agenti delle forze dell’ordine.
Senz’altro i ripetuti impegni che implicano relazioni interpersonali e l’esito eccessivo di compiti emotivi, cognitivi o sociali, percepiti dai docenti brucia le loro energie fisiche e mentali. Questa forma di esaurimento o logorio che si accumula quotidianamente arrivando all’esaurimento fisico ed emotivo si divide in tre fasi: la prima fase, entusiasmo idealistico, è caratterizzata dalle motivazioni che hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale per migliorare il mondo e se stessi, ma anche per la sicurezza di un impiego, lo svolgere di un lavoro meno manuale e di maggiore prestigio, e motivazioni inconsce come un successo generalizzato e immediato e un miglioramento del proprio status. Nella seconda fase, stagnazione, l’operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. Si passa così da un super investimento iniziale a un graduale disimpegno. La fase più critica del burnout è la terza, frustrazione. Il pensiero dominante del docente è quello di non essere in grado di completare il suo lavoro e di aiutare i propri studenti, e quindi prova una sensazione di inutilità con grande frustrazione, che si aggiungono allo scarso apprezzamento da parte dei superiori, genitori, e studenti per il loro lavoro.
Per concludere, i docenti, o professionisti, che arrivano alla terza fase della sindrome del burnout non riescono a smaltire o gestire ne la frustrazione e ne lo stress, quindi, non riuscendo a lavorare possono assumere degli atteggiamenti aggressivi verso sé stessi o verso gli altri. Spesso mettono in atto comportamenti di fuga come l’allontanamento ingiustificato dal posto di lavoro, prendono una pausa prolungata, e chiedono frequenti assenze di malattia. Nei casi più estremi arrivano al licenziamento o a dare le dimissioni. Durante la mia docenza ho visto dei colleghi dare le dimissioni per cambiare professione, ma anche molti licenziamenti di insegnanti che non erano ancora di ruolo nella scuola.