I titoli dei giornali abbondano con i termini migranti, rifugiati e profughi, parole che sembrano analoghe bensì hanno significati diversi e distinti che indicano situazioni sociali precisi e giuridiche.
Il termine migrante, participio presente del verbo migrare, è spesso usato per indicare il flusso di persone in fuga dal proprio Paese, ma in realtà indica chi lascia il Paese d’origine volontariamente in cerca di un lavoro e condizioni di vita migliori in un altro Paese, e quindi ha una connotazione di “migrazione” economica. In medicina, migrante descrive un organo che ha capacità o possibilità di spostamento dalla sede abituale a un’altra, chiamate cellule migratori. Come per esempio una cellula o un organo che si sposta in modo attivo o passivo a seconda del caso e/o dalla sede abituale. Il termine migrante dovrebbe essere sinonimo di coraggioso poiché chi migra da un paese diverso e da diverse condizioni sociali transita verso molti sedi prima di compire il proprio percorso migratorio. Invece alla parola migrante è spesso attribuito a una connotazione dispregiativa che crea distanze tra migranti e cittadini. Creare comunità in cui si rompano le distanze e si costruiscano ponti di relazione tra cittadini e migranti è molto importante per l’integrazione del Paese.
Negli USA l’immigrazione è storia vecchia mentre per l’Italia è una fenomeno degli ultimi 20 anni. L’integrazione degli immigrati non è mai stata un processo facile, infatti molti migranti per evitare discriminazioni e per integrarsi velocemente si allontanano dalle loro radici, perdendo la loro identità. Questo successe ai figli degli italiani migrati negli USA prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Conosco molti docenti che hanno insegnato o insegnano con me che mi raccontano di essere stati privati dai loro genitori di imparare la lingua italiana o quella regionale per imparare bene l’inglese e continuare gli studi senza farsi discriminare dai compagni o dai professori. Parlo di docenti che oggi hanno 60-65-70 anni; i loro genitori desideravano per loro un futuro più agiato, una vita migliore, e quello era l’unico modo per garantirglielo. La lingua ci identifica, è la nostra identità più apparente. Altri colleghi mi hanno raccontano che i loro nonni per non essere identificati come italiani avevano modificato il loro cognome eliminando l’ultima vocale.
Purtroppo fino agli anni sessanta negli USA esisteva la segregazione, e i diritti sociali non erano garantiti come oggi. A quei tempi non c’erano gli operatori sociali per aiutare l’integrazione senza escludere minoranze e/o promuovendo la partecipazione dei migranti nella società e nella nuova cultura transnazionale. Oggi negli USA anche gli insegnanti sono dotati di strumenti metodologiche che aiutano gli immigrati in tutte le discipline scolastiche, i quali istruiscono anche le famiglie sulla conoscenza delle comunità etniche della zona. Invece in Italia questo è un tema ancora difficile da affrontare, sia dalle scuole e sia dal Governo, se si considera che secondo molti politici una persona deve essere considerata come migrante anche quando è nato/a nel Paese.

Tornando alla definizione del termine, la Convenzione delle Nazioni Unite definisce migrante un lavoratore che deve essere impegnato in un’attività lavorativa in uno Stato di cui non è cittadino. In aggiunta la decisione che lo ha portato alla migrazione deve essere stata presa liberamente dall’individuo interessato per ragioni di convenienza personale e senza intervento di un fattore esterno forzato. In altre parole, i migranti sono persone che prendono le decisioni relative al quando partire e al dove andare. Eppure alcuni studiosi distinguono tra: migrazione volontaria e involontaria, interna nel proprio Paese da una regione all’altra e internazionale, e considerano in separata sede i migranti temporanei per motivi lavoro (noti anche come lavoratori ospiti o lavoratori di contratti d’oltremare) da una parte, e in migranti per un periodo di tempo limitato con l’obiettivo di lavorare e mandare denaro alle proprie case dall’altra. Poi ci sono i migranti altamente qualificati e legati alle rispettive professioni, persone che hanno qualifiche come dirigenti, professionisti, tecnici o simili, che si spostano all’interno dei mercati interni delle corporazioni transnazionali e delle organizzazioni internazionali, quelli chiamati “cervelli in fuga”. Infine ci sono i migranti irregolari, o illegali, quelle persone che entrano in un paese in cerca di occupazione senza i necessari documenti e permessi. Espellere un migrato illegale costa molto allo Stato perché l’espulsione è fatta via aereo a carico dello Stato, e per ogni straniero rimpatriato lo Stato paga cinque biglietti aerei: quello dello straniero e quelli di andata e ritorno per due agenti che lo scortano.
A differenza del migrante, il termine rifugiato o rifugiato politico ha un significato giuridico preciso che indica chi fugge, oppure viene espulso, dal suo Paese originario e trova ospitalità in un Paese straniero che riconosce legalmente lo stato giuridico causato da una guerra, da discriminazioni politiche, religiose, razziali, e/o di nazionalità del rifugiato. I diritti dei rifugiati politici sono approvati nelle norme giuridiche internazionale dalla Convenzione di Ginevra del 1951 che riconosce le persone che non possono ritornare a casa nel loro Paese perché pericoloso e hanno bisogno di protezione: “Colui che, (…) temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” (Convenzione sullo status dei rifugiati, Cap. 1, Art. 1 “Definizione del termine di ‘rifugiato'”, Ginevra, 28 luglio 1951).
Il rifugiato è anche colui che trovandosi fuori del suo Stato per le ragioni sopra indicate non vuole ritornarci e ha richiesto protezione allo Stato in cui si rifugia, da quello di cui possiede la cittadinanza. Il costo medio per l’accoglienza di un richiedente asilo o rifugiato è di 35 euro al giorno. “Il Global Trends 2016, la principale indagine sui flussi migratori a livello mondiale condotta dall’Agenzia, afferma che alla fine del 2016 le persone costrette ad abbandonare le proprie case in tutto il mondo sono 65,6 milioni – circa 300.000 in più rispetto all’anno precedente. Questo dato rappresenta un numero enorme di persone che necessitano di protezione in tutto il mondo”, rende nota l’organizzazione delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’UNHCR.
Diverso dai rifugiati, c’è la figura del profugo, che descrive chi fugge da un Paese povero, dalla fame, dalla sete, dalla guerra, o da una catastrofe naturale, o colui che per persecuzione politica, problemi economici, degrado ambientale o per una combinazione di questi va in cerca di sopravvivenza o di benessere non esisteste nel loro luogo d’origine. Tuttavia il profugo non ha il diritto di chiedere protezione internazionale come il rifugiato, sancita dal diritto internazionale. Di conseguenza, il significato del termine profugo, di origine latina, non evidenzia la provenienza bensì la destinazione. In altre parole il profugo è chi corre verso un nuovo posto in cui vivere, un lavoro, un futuro, e non chi fugge da qualcuno o da qualcosa.
Eppure, nonostante queste parole sembrino analoghe, in realtà hanno significati diversi che indicano situazioni sociali e giuridiche differenti. L’emigrazione non è un singolo atto di attraversare un confine, legalmente o illegalmente, ma è piuttosto un lungo processo che dura tutta la vita e colpisce tutti gli aspetti della vita di coloro che sono coinvolti e di tutta la cittadinanza che li circonda. Infatti, i movimenti degli stranieri all’interno della loro nuova società coinvolgono l’intera popolazione, che cambia a causa degli influssi che portano con sé le nuove culture: nuove usanze, tradizioni diverse, abitudini, cibo, e come dice Giovanni Ruffino nel libro “Parole migranti tra Oriente e Occidente”, anche le parole, che migrano come con gli uomini. Tutti fattori questi che indicano la causa e l’effetto di un rapporto di scambio tra lingue, culture, e etnie, che si spostano da Paese all’altro. Negli ultimi vent’anni il più grande flusso tra singoli Paesi è quello dal Messico verso gli Stati Uniti. E gli Stati Uniti sono anche il Paese che riceve ogni anno il massimo numero di migranti, rifugiati e profughi in paragone a tutte le altre Nazioni.
Per concludere: Un migrante sceglie di lasciare volontariamente il proprio Paese d’origine per cercare lavoro e migliori condizioni economiche. Rifugiato è una persona al quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra del 1951. Al contrario del rifugiato un migrante può ritornare a casa nel suo Paese natio senza affrontare pericoli. Profugo (termine generico) indica chi lascia il proprio Paese a causa di guerre o catastrofi naturali. I profughi che scappano dalla guerra e dalla fame portano nei loro sguardi la disperazione e la paura lasciata alle loro spalle, ma nei loro occhi si legge anche la speranza di trovare un posto dove vivere in pace, anche se per molti profughi la speranza viene spenta dalle onde del mare e dall’indifferenza del mondo.