Abbiamo intervistato il Prof. Massimo Arcangeli, docente di linguistica italiana ed ex-preside della facoltà di Lingue e letterature Straniere presso l’Università degli Studi di Cagliari, dove è incaricato anche dell’insegnamento di Sociologia dei processi culturali e comunicativi.
Il professor Arcangeli ha ideato, e diretto, “Parole in cammino, il Festival dell’italiano e delle lingue d’Italia”. Un evento realizzato dall’Associazione “La Parola che non muore” dal 7 al 9 aprile e promosso dall’Università di Siena, dove si affronterà il tema delle lingue e dialetti d’Italia.
Arcangeli è autore di saggi e articoli scientifici e divulgativi. Componente del collegio di dottorato in linguistica Storica e Storia Linguistica Italiana dell’università “La Sapienza” di Roma, insegna anche teoria e tecnica del linguaggio giornalistico presso l’università LUISS – Guido Carli di Roma e collabora con l’Istituto della Dante Alighieri e il quotidiano La Repubblica.
Professor Arcangeli, intorno a quale tema si articola principalmente il Festival dell’italiano e delle lingue d’Italia?
“I temi portanti sono tre: comunicazione e informazione; creatività lessicale e ludolinguistica; musica e parole”.
La città di Siena si propone come il punto di partenza per un percorso culturale sulla storia dell’italiano. Il festival Parole in cammino è una continuazione del Festival La Parola che non muore tenutesi a Civita di Bagnoregio, oppure è un progetto nuovo e diverso?
“La manifestazione è nuova e autonoma, ma è agganciata ad altri festival (compreso La parola che non muore) in un grande progetto di rete che, al momento attuale, vede il coinvolgimento di più di dieci realtà festivaliere nazionali, dal nord al sud della penisola”.
Quante sono le parole della lingua italiana e quante ne usano in media gli italiani, sapendo perfettamente il loro relativo significato?
“Un buon dizionario della lingua italiana corrente dovrebbe contenere almeno 100.000 parole. Non supera le 10.000 parole la dotazione lessicale media di un parlante italiano nativo”.
La nostra lingua è stata descritta come una delle più melodiche, piacevoli, e seducenti; “Gli angeli nel cielo parlano italiano”, fa dire Thomas Mann al protagonista di un suo romanzo. Allora perchè l’italiano non riesce ad avere il successo meritato tra i giovani italiani?
“I giovani amano la loro (la nostra) lingua, anche se, come tutti i giovani, si allontanano talvolta dalla sua versione normativa per rivendicare il diritto di potersi esprimere liberamente e senza freni: giocando con l’italiano (componente ludica), oppure nascondendone alcuni tratti agli adulti (componente criptica)”
Quanti neologismi, in media, entrano a far parte della lingua italiana ogni anno e quali sono i più usati?
“Difficile dirlo, ma non sono meno di qualche centinaio. Fra i settori maggiormente coinvolti nella creazione di nuove parole ci sono senz’altro quello informatico e quello economico-finanziario”.
Serve veramente lo slang, i neologismi inventati dai giovani, nella lingua italiana?
“La spinta innovativa impressa al linguaggio dai giovani è una componente importante per una qualunque lingua, e dunque anche per la nostra; andrebbe anzi valorizzata, anche con opportune iniziative didattiche e progetti culturali mirati. Una lingua si mantiene viva se viene continuamente ricreata, e i giovani hanno un ruolo di tutto rispetto in questo processo di ricreazione interna”.
I neologismi e i forestierismi illuminano o oscurano la nostra lingua nazionale? Aiutano o impoveriscono la lingua dei giovani?
“Dei neologismi ho detto. Quanto agli stranierismi, dipende. Se sono prestiti snobistici, facilmente traducibili, possiamo farne tranquillamente a meno. Se sono prestiti di necessità, e di ampia circolazione internazionale (come tanti anglicismi), una loro traduzione è controproducente o inutile”.
Un metodo di comunicazione immediata, creando parole miste tra due o più lingue, era il Pidgin, un linguaggio creato anche dagli immigrati italiani negli USA. Secondo lei, gli slang e i forestierismi sono una forma di Pidgin?
“Talvolta lo sono, anche perché ultimamente il numero di parole ibride, in italiano e altrove, è aumentato (come sono aumentati i casi di semplificazione grammaticale, ai vari livelli)”.
La grammatica italiana non è facile per gli stranieri, ed è una lingua in continua evoluzione. In che modo i docenti all’estero possono accrescere la loro padronanza delle nuove parole per non sentirsi a disagio nel non sapere un neologismo della lingua italiana?
“L’unico modo è il costante aggiornamento, per stare al passo coi tempi”.
Sappiamo che le parole influiscono sulla vita del parlante. Professore, se si incoraggiano gli studenti all’uso dell’italiano corretto si evita una povertà linguistica tra i giovani?
“Oggi il concetto di norma è molto più sfaccettato rispetto al passato. Non si può tuttavia evitare di continuare a educare i giovani e i giovanissimi all’uso corretto di una lingua nazionale che, in quanto tale, abbisogna del necessario sostegno ed esige il possesso di un bagaglio lessicale e grammaticale in grado di arricchirla e di preservarne le forme”.
L’abilità di parlare un dialetto e cambiare registro, secondo il luogo, la situazione e l’interlocutore, è un vantaggio o uno svantaggio per i giovani?
“Un doppio vantaggio, anche per la capacità di adattamento che presuppone”.
Per noi italiani la gestualità è del tutto spontanea per far capire meglio il nostro messaggio all’interlocutore. Secondo lei i gesti sono anche uno degli stereotipi che ci descrive negativamente nel mondo?
“Sì, lo sono. Anche se, in molti casi, hanno un innegabile fondo di verità (è assodato, e dimostrato in tante ricerche sull’argomento, che gesticoliamo più di altri popoli)”.