Sono contrario a qualsiasi polemica, soprattutto mediatica e non è nel mio stile, perché diventa battibecco irrisolto e apre un contenzioso infinito nel quale ha sempre ragione chi ha l’ultima parola. E generalmente non ho ragione di rispondere alle critiche ponderate. Fanno parte del gioco e della diversità di opinioni. Mi dispiace però di non essermi saputo spiegare bene (prova la domanda apodittica «Ma che senso ha quell’intervento sulla crisi dell’italiano?» e la taccia di “cattivi o mediocri” professori), ma mi addolora ancor più di essere offeso come “reazionario” (anche in occhiello). Lo dico da professore ammesso al tavolo dei suoi sessantottini, appena trentenne docente di italiano in un tecnico per telecomunicazioni che ha vissuto “di parte” quell’epoca che oggi molti revisionisti si accaniscono a demolire.
Per rispondere in forma soggettiva alla contestazione di semplici opinioni nella quale mi stupisce l’irruenza, ma soprattutto la discesa nel personale su una questione che aveva bisogno di riflessione pacata e spersonalizzata per il bene di una lingua e di una cultura che tutti ci invidiano. E che io amo in modo così passionale e infantile tanto da scriverci con essa anche poesie, immaginati.
Una volta in questo giornale mi è stato rimproverato di parlarmi addosso. Perciò più mi stupisce questa protesta all’insegna dell’io, delle esperienze didattiche personali, della bravura del mio recensore che non potrei in alcun modo mettere in dubbio e non lo farei mai, di tanti come lui in trincea. Elogiavo perciò Filomena Fuduli Sorrentino per le sue analisi e il suo lavoro. Nel mio articolo non parlavo della mia quarantennale missione in campo, né della mia ricerca di una vita. Non citavo il “mio” Archiloco della “maza”! è stato il mio pane, anno per anno, ossessivamente nei ritmi e nel dialetto ionico, nell’elegia e nel giambo, almeno come si legge per convenzione…
Giuro che non ho mai voluto offendere un solo, povero sfruttato tartassato insegnante, perché pure io sono stato insegnante sfruttato e in Italia sono state sempre lacrime e sangue, stipendi di fame e scioperi, sapessi, caro Alessandro, sono stato pure io in Calabria, emigrato in patria per l’hobby del latino e greco, ho cercato di adeguare le esigenze al salario, ridotto alla stregua di metalmeccanico con la pretesa delle 36 ore lavorative. Ho avuto genitori che volevano che picchiassi i loro figli ed altri che mi dicevano “non sa chi sono io”. E la mia schiena è rimasta dritta, perché allora con una laurea in lettere classiche si faceva solo il docente, altro che offerte bancarie o governative. Ma d’altra parte se si era scelto quel “mestiere”, così specialistico, lo si era fatto per “vocazione” (da “voco”, chiamo). Oggi so di veterinari sovrintendenti di centri archeologici, Ma allora non c’era FB e whatsapp e altre diavolerie (chi ha parlato di manga?), le fanciulle non si facevano i self intimi nel bagno, stupitevi, non circolava droga. Non esistevano recenti fate Morgane e miraggi ammalianti. Eppure anche allora era difficile richiamare l’attenzione di giovani, che percepivano la lezione come obbligo scolastico. Spesso scelta del padre avvocato o ingegnere che voleva un figlio al classico o un autista di bus o un netturbino che volevano “togliere i figli dalla strada”. Prima che si chiamassero in causa i tempi di attenzione e di concentrazione. La lezione, poi detta “frontale”, si recitava su fronti opposti. E lo capisco, perché poi dovevi render conto con una “interrogazione” (“interrogatorio”?) e un voto. Ecco la tragedia della scuola, il voto, oggi eufemisticamente detta valutazione, da voi con lettere che alla fine rispondono ad una gradazione numerica. La scelta in una graduatoria dei migliori, si fa per dire, per le esigenze del potere. Perciò asini e geni che talvolta sono una frana nella vita. Il voto impedisce lo studio per la semplice formazione, la conoscenza per la conoscenza. Nel 1983 vi scrissi un saggio, La scuola nella Roma antica, sulla deleteria invenzione della scuola statale di Vespasiano, quello dei cessi pubblici, prima dei Campus prigione di Teodosio II nel 425.
Per carità, caro Alessandro, non facciamo la fine dei famigerati polli di Renzo! Siamo sulla stessa barricata. Lungi dalla nostra cultura l’aggressione in una società costruita sui fakes. Sapessi in quarant’anni quanti corsi di aggiornamento e quanti aggiustamenti di metodo, quante vittorie e quante sconfitte. Alla scuola di obbligo si andava di casa in casa alla ricerca del renitente. Anche per formare le classi e non perdere il posto. Ho chiesto qualche settimana fa come operare dalla Sicilia per promuovere la cultura italiana in USA alla rappresentante italiana Fucsia Nissoli Fitzgerald, deputata al Parlamento Italiano, Circoscrizione Estero Nord e Centro America, dalla quale ho avuto un generico consiglio di presentare progetti. Mi sarei aspettato un diverso aiuto pratico, diciamo burocratico, ma so di un importante incontro sulla lingua italiana con l’ambasciatore Varricchio. E a me sta a cuore dato che Palermo è stata nominata Capitale della Cultura 2018 e ospiterà Manifesta 12, la più famosa biennale itinerante di arte contemporanea europea con l’appoggio e la prodigalità anche del gallerista internazionale Massimo Valsecchi che ha scelto Palazzo Butera come sede permanente della sua splendida collezione d’arte.