Oggi mi capita di scrivere un irrituale coccodrillo, mestiere per me inusitato, in quanto in genere mi occupo di vivi. Oggi scrivo della scomparsa di un grande italiano, Tullio De Mauro (Qui l’intervista con La Voce di pochi mesi fa).
La lingua è stata sempre il mio strumento di indagine e di conoscenza del mondo e quindi in profondo dell’uomo, nella ferma convinzione che l’Uomo è in quanto creatore del linguaggio, diverso da tutti gli altri “zòa”, non “animali”, come puerilmente si traduce, ma “esseri dotati di vita”. E come tale l’uomo è Dio. Il Cristo del Vangelo di Giovanni è Logos, è Verbo che si è fatto carne. Pertanto il Gustave Flaubert citato da Tullio De Mauro: «Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere».
Al di fuori dei canoni del professore di lingue morte (è una boutade, anche l’italiano, l’inglese, il francese di poeti e narratori, anche la lingua appena parlata o scritta sono morti, anche il mio articolo, se sarà pubblicato, entrerà nel cimitero della lingua) mi hanno affascinato le teorie linguistiche, profeta Ferdinand de Saussure fino al “trauma del linguaggio” di Jacques Lacan. Tullio De Mauro è stato perciò il nume tutelare che mi ha guidato ed ispirato dai primi anni di acquisizioni letterarie e culturali, che è stato di guida nella individuazione di una strada che mi spiegasse cosa è l’italiano di oggi. Allora nulla seppi di trascorsi fascisti rievocati oggi senza ragione (Mauro repubblichino?), ma conobbi la sua fede nei valori della sinistra. Presiedette la fondazione romana Mondo digitale dal 2001 al 2010 e ne fu esautorato dal sindaco Alemanno. Fu nel lontanissimo mio apprendistato, appena laureato, che mi perdetti nell’intricata foresta del capolavoro di De Mauro, la Storia linguistica dell’Italia unita (prima edizione Laterza, Bari 1963). Per la prima volta un esperto in linguistica generale, di Torre Annunziata, ma professore a Palermo di filosofia del linguaggio e palermitano di adozione, faceva il punto sulla questione della lingua italiana non da letterato (dal De vulgari eloquentia di Dante a Manzoni e ai veristi Verga e Capuana passando per le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo), ma da tecnico e perito della lingua, specificamente di quella di nazionalità italiana, quella parlata dopo che si era formata la Nazione, il Regno di Italia. Le nostre scuole sono strutturate ancora, nonostante le cosiddette riforme soltanto di facciata con semplice cambio di terminologia e di struttura, ma mai di sostanza, sulla solida riforma Gentile. Sì, è vero, oggi le scuole superiori sono tutte Licei, il semplice discrimine di Istituto magistrale, tecnico, etc. era offensivo. La sostanza della didattica però, pur con la panacea della modernità digitale o delle lavagne multimediali, addirittura interattive, poco hanno scalfito il congegno dell’acculturazione, dell’intervento formativo. Perciò quel testo fu fondante e disatteso fino ad oggi. Eppure la vita di Tullio De Mauro fu tutta dedicata al consolidamento di un nostro linguaggio nazionale.
I suoi titoli accademici (Accademico della Crusca) e politici (assessore e Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Amato II, 2000-2001), le tante università in cui ha offerto il suo magistero (cofondatore della “Sapienza” di Roma), gli strumenti tecnici approntati (Il dizionario della lingua italiana De Mauro, edito nel 2000 da Paravia, uscito dal catalogo, dal novembre 2014 nel sito Internazionale online Nuovo De Mauro), la sua intensa attività di linguista come fondatore e socio di diverse società (per tutte la presidenza dal 1969 al 1973 della Società di Linguistica italiana), fino alla più frivola attività nel Premio Strega si chiudono con un monumento, aere perennius, l’illuminante Grande Dizionario Italiano dell’Uso (GRADIT) in sei volumi editi da UTET dal 1999 al 2007. La precisazione nella specificazione chiarisce e illumina sul concetto della lingua che lo ispirò a cominciare dalla unificazione dell’Italia, “l’uso”, al di fuori di quei sistemi di grammatiche normative e di vocabolari mummificati, nell’acquisizione del concetto in progress, organismo diacronico vivente.
Eppure in questa esigenza di rinvenire nel processo evoluzionistico temporale l’unità linguistica di un gruppo di parlanti che formano non semplicemente uno Stato, ma una Nazione, al di là delle deformazioni e degenerazioni prettamente nazionalistiche e razziste, non dimenticò mai che questo organismo di comunicazione, che non è solo grafico, ma fondamentalmente fonetico (non per nulla si chiama “lingua”, come organo fonatorio), affonda le sue radici in un sostrato profondo, in un immenso fiume carsico, linguisticamente ricchissimo, che furono e sono ancora i dialetti locali.
E a questa realtà mi ha indirizzato un libricino, a conclusione di tutta una vita, in veste candida, autori in rosso, sopra e sotto il titolo in nero, che ho proposto come titolo di questo mio intervento, un proverbio siciliano che rievoca abitudini e frequentazioni inveterate e non sradicabili, luoghi dell’anima che sono radici e basi della nostra esistenza. Si tratta del dialogo, possiamo dirlo da salotto e in pantofole?, tra Andrea Camilleri, l’inventore di un nuovo prototipo di falsi dialetti siculi (da Meli a Micio Tempio a Buttitta), e il sussiegoso Tullio De Mauro, tecnico specialista di lingua (Andrea Camilleri – Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, editori Laterza, Bari, 2013). Su questa frivolezza dell’illuminato guru che ha dedicato la vita ai processi linguistici ho già espresso le mie opinioni online e ad esse mi riporto e ne richiamo il testo per coloro che volessero conoscerle e chiedo perdono se vi ho espresso qualche irriverenza, per meglio chiarire ai profani i limiti del mio discorso, pur con grande affetto e stima per il linguista .
Parlavo di frivolezza perché il dialogo, che dovrebbe affrontate l’antica e spinosa questione della lingua sulla quale si sono cimentati nei secoli gli inesistenti Italiani, si mantiene sulla linea delle confidenze e dell’affabulazione di due vecchietti, Tullio a ottantadue anni e Andrea a 89 anni. Sono ricordi della frequentazione della “lingua” siciliana che rivivono in episodi e in incontri, culturali o reali, si colorano di nostalgia e di amore per una terra che ha dato moltissimo ad entrambi, che ne parlano ormai, lontani da anni da quei luoghi, da quelle cromie, da quei ritmi linguistici, da quei modi di dire così strampalati che rievocano con affetto, dal classico “mòviti” per “stai fermo” ad “annacarsi” e allo stupendo latinismo “chinnicchiennacchi”. Entrambi giocano simpaticamente, ma empaticamente su quel parlare che rimane codice dell’anima, isola edulcorata di immagini sonore, e sui volti e sui nomi dell’isola indimenticata ed indimenticabile.
Eppure nella struttura il libro vuol essere un trattato di linguistica. Ecco, l’indagatore della lingua italiana dall’unificazione ad oggi discetta e avvia il dialogo con il sosia di “Montalbano sugnu” su una immagine dal Libera nos a Malo di Luigi Meneghello riguardo alle ferite superficiali sull’epidermide, le lingue, e quelle antiche, i dialetti, sintetizzata in un principio assiomatico, «L’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa». Poi il tema caro al linguista, “Eravamo italiani senza saperlo”, il paradigma di una questione irrisolta, di quegli Italiani, che non sono riusciti a trovare una lingua, diversamente dai Francesi e addirittura dei Tedeschi di Lutero traduttore della Bibbia. Perché alla fine per rinvenire un linguaggio comune occorre una identità nazionale e l’Italia non è riuscita a diventare Nazione. Irrisolto quell’impegno riportato da Massimo D’Azeglio nei suoi I miei ricordi: «pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani». Passavano i due compari alla perspicuità e singolarità del siciliano, “un italiano in cui non si dice mai ‘dare’”. Ma dalla lingua non poteva che scendere l’altra questione essenziale della lettura: il cap. 4, «ci sono tanti modi di leggere», per poi giungere al consiglio, «scrivila come l’hai raccontata a me». E l’appello «contro il cattivo uso delle parole» in giorni di parole in libertà, storpiate inventate abusate e gridate, ma ancor peggio supplite da faccine e cuoricini dopo secoli di invenzioni di idee. L’epilogo di Tullio: «Beh, in fondo ancor oggi buona parte della popolazione sa, è in grado di parlare un dialetto. Una vera e propria riserva di autenticità, un argine contro quel tecnologichese impersonale che Pasolini temeva». E riguardo all’italiano la richiesta di un “suo buon uso”, di un “ordito di base solido”, perché «l’italiano rischia di essere un guscio fonico, povero dei contenuti necessari a vivere nel complicato mondo contemporaneo, nel mondo “vasto e terribile”, mi pare dicesse Gramsci».
Ad epigrafe del primo capitolo una poesia di Ignazio Buttitta: Un populu / mittitulu a catina / spugghiatulu / attuppatici a vucca / è ancora libiru. Livatici u travagghiu / u passaportu / a tavola unni mancia / u lettu unni dormi / è ancora riccu. Un populu diventa poviru e servu / quannu ci arrubbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri.
Ricordate, sovrani di popoli sudditi, in questi tempi di migrazioni globali, in questa continua e irrefrenabile mistione di popoli. Non servono muri e fili spinati ad ovest e ad est. Perché alla fine per sapere chi è il vero prigioniero o escluso bisogna stabilire da quale prospettiva si guarda il muro, da dentro o da fuori, da carceriere o da carcerato.
Qui la recente intervista di Filomena Fuduli Sorrentino con Tullio De Mauro
Carmelo Fucarino, siciliano di Prizzi, dopo essersi laureato in lettere classiche nell’Università di Palermo, ha insegnato lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo classico «G. Garibaldi» della stessa città. Sensibile alla poesia, ha pubblicato liriche e dato contributi a riviste del settore letterario italiano, svolgendo un’ampia e continua attività di saggista nel campo degli studi classici. Oggi ha ampliato il suo campo di indagine alla storia locale all’etnologia e alle tradizioni popolari siciliane.