Nell’Italia di oggi sembrerebbe che i dialetti siano uno strumento di comunicazione del passato. Per capire quali sono le prospettive e quale futuro hanno i dialetti italiani tra i giovani, abbiamo intervistato il professor Paolo Balboni, linguista e studioso di glottodidattica, che insegna da quasi quarant’anni lingua, didattica, ricerca e metodologia, sia in Italia che all’estero. Balboni è anche autore di numerose opere sulla didattica dell’italiano e di importanti saggi per l’istruzione delle lingue straniere. I suoi testi sono tra i più utilizzati nella formazione degli insegnanti d’italiano di L2. Balboni è inoltre il fondatore di ITALS Ca’ Foscari di Venezia, un centro di ricerche neurolinguistiche. Il Prof. Balboni sarà a New York, al Graduate Center della CUNY il 26 febbraio, per una conferenza.
L’italiano è la nostra lingua nazionale e nel corso della storia unitaria ha guadagnato moltissimo terreno imponendosi come lingua di prestigio nel repertorio linguistico mondiale. A parte il fiorentino, altri dialetti hanno favorito l’arricchimento della nostra lingua?
“L’italiano è diventato la nostra lingua nazionale tra gli intellettuali nel Trecento, ma tra la gente dopo la metà del 20° secolo. Al momento dell’unità d’Italia, ci ricorda De Mauro, il 2,5 per cento della popolazione conosceva l’italiano al di fuori di Toscana e Lazio.
Con l’esplodere della comunicazione di massa vari dialetti – che sarebbe meglio chiamare lingue locali, perché sono lingue a sé, non sono varietà regionali dell’italiano – hanno contribuito: il napoletano di Totò e Eduardo, il romanesco di Sordi e di molto neorealismo, e così via”.
Dagli anni ’60 a oggi il progressivo diffondersi delle competenze di lettura, scrittura, e dell’italiano parlato ha causato la morte di alcuni dialetti italiani?
“Non sono state la lettura e la scrittura, ma l’ascolto di trasmissioni, discorsi, telecronache, show in italiano. Era stato proposto il riconoscimento di senatore a vita per Mike Bongiorno, che ha insegnato l’italiano agli italiani: era giusto, meritato.
I dialetti hanno avuto problemi perché le famiglie e la scuola li hanno definiti “poveri”, “brutti”, “vecchi”, come se si potesse dire che sono poveri, brutti e vecchi Ruzante e Goldoni, Dario Fo e Belli, Pasolini e Marin… E in secondo luogo, non dimentichiamo i milioni di italiani che sono andati da una regione all’altra, annacquando il loro dialetto e poi perdendolo”.
Professor Balboni perché la totale scomparsa dei dialetti sarebbe una grande perdita culturale, e cosa ci fornisce lo studio scientifico della dialettologia?
“Esistono lingue del fare, cioè pragmatiche, e lingue dell’essere, quelle della propria identità, del pensiero profondo, dell’espressione di emozioni. L’inglese oggi nel mondo è una lingua del fare, della cui correttezza formale e della cui ricchezza lessicale non interessa niente a nessuno (l’inglese è il grande sconfitto, il grande perdente tra le lingue moderne: ridotto a uno scheletro linguistico deculturalizzato e privo di espressività, tranne nei paesi dove è madrelingua); l’italiano è lingua del fare in Italia, e per molti italiani è anche lingua dell’essere, ma ce ne sono altrettanti per i quali il dialetto è la vera lingua dell’essere. E perdere un mezzo di espressione di pensiero e sentimento è una sconfitta, una perdita per tutti”.
La canzone napoletana è celebre in tutto il mondo, e l’UNESCO ha riconosciuto che il napoletano non è un dialetto bensì una lingua. Malgrado ciò, come tanti altri idiomi scritti e parlati, che rappresentano un enorme archivio storico trasmesso tra secoli, è riconosciuto come un idioma parlato all’interno dei suoi confini. Perché questa differenza sul riconoscimento linguistico? Questi idiomi si dovrebbero definire dialetti, parlate regionali o vere lingue?
“Partiamo dal fatto che l’UNESCO non ha fatto altro che riconoscere quello che i linguisti sanno dall’Ottocento: in Italia si parlano una dozzina di lingue, e quelle al di sopra della ‘linea gotica’, cioè i dialetti dalla forte componente celtica come l’emiliano, il lombardo, il piemontese, nonché i dialetti veneti e quelli ladini dal Friuli al Trentino alla Svizzera, sono lingue che appartengono al gruppo occidentale delle lingue neolatine, mentre l’italiano, i dialetti centrali, meridionali, insulari e il rumeno appartengono al gruppo orientale.
Sardo e Fiulano sono riconosciuti come lingue anche dalla legge del 1999 che attua la Costituzione in ordine alla tutela delle minoranze linguistiche.
Perché dodici lingue sono diventate ‘dialetti’ e una è diventata ‘lingua’? Non ricordo chi sia l’autore della battuta, ma è molto chiara: le lingue sono dialetti che hanno alle loro spalle un esercito che le promuove ed impone. Alla fine del Quattrocento il Doge Foscari aveva capito che la Serenissima doveva smettere di essere una repubblica marinara, visto che i traffici si spostavano verso l’Atlantico, e doveva diventare una potenza di terra, come gli stati unitari europei che stavano formandosi: se non fosse stato sconfitto dai mercanti e avesse proseguito nel progetto di conquistare la pianura padana (era giunto fino a Bergamo!), ci sarebbe stato uno stato di lingua veneta, sostenuto dall’esercito veneziano”.
Camilleri usa il siciliano in modo notevole nella narrazione. Se le stesse frasi, le stesse storie, e gli stessi dialoghi si leggessero in italiano, anziché in siciliano, il risultato sarebbe diverso? Qual è la sua opinione sull’uso del dialetto in narrativa?
“Camilleri ripercorre il disegno di Pasolini – e fino a vent’anni fa nessun editore voleva pubblicarlo. Poi è esploso, ed è il più venduto autore italiano in Italia: perché la gente ha capito la ricchezza del finto siciliano di Camilleri, lingua dell’essere di Montalbano e degli altri protagonisti dei romani di Camilleri. Il quale non scrive solo in dialetto: in ogni suo libro c’è un gioco amplissimo di scelte linguistiche, dall’aulico italiano dei fascisti all’italiano arido degli avvocati: quando Montalbano è dal questore, usa un italiano normalissimo – ma i suoi pensieri sono in siculo-camilleriano, perché in quella lingua si esprime il suo essere, mentre in italiano Montalbano finge”.
L’abilità di parlare un dialetto e cambiare registro secondo il luogo, la situazione, l’interlocutore, e stato d’animo è un vantaggio o uno svantaggio per i parlanti e per chi li ascolta?
“È una necessità. Provi lei a Vivere a Venezia o Napoli sapendo solo l’italiano!”.
Una famosa citazione di Pier Paolo Pasolini dice: “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. Perché Pasolini dava molto importanza ai dialetti?
“Perché dava importanza alla vita vera delle persone, alle loro emozioni, rabbie, ai loro progetti e desideri”.
Oggi, i neologismi e i forestierismi illuminano o oscurano la nostra lingua nazionale?
“Sono solo il risultato di un’enorme pigrizia. Prima ho risposto usando ‘comunicazioni di massa’ anziché mass media: ci vuole poco. Ma il dramma è che sono gli incolti, e provinciali, quelli che vogliono apparire, che infarciscono l’italiano di anglicismi, spesso pronunciati male (pèrformance, manàgement, ad esempio); le persone colte sanno l’uno e l’altro – e anche il dialetto, spesso”.
Da un paio d’anni si legge che l’italiano sarebbe la quarta lingua straniera più studiata nel mondo, perché questo? Lei pensa che nei dati siano inclusi anche i dialetti?
“Era un difetto di prospettiva e di calcolo. Oggi neanche il Ministero degli Esteri cita più questo dato”.
Secondo lei il governo italiano dovrebbe cercare di preservare i dialetti all’estero? Oppure dovrebbe farli dimenticare per promuovere solo l’italiano?
“In queste cose il governo non c’entra. Sono le comunità. Un editore padovano sta creando una collana di testi scritti da emigranti o loro discendenti, e di cui mi è stata affidata la direzione scientifica: ebbene, non abbiamo ricevuto una sola proposta in dialetto”.