“Mia sorella aveva un piccolo orsacchiotto di pezza, divenuto compagno silenzioso e inseparabile durante i lunghi anni di permanenza nel campo di prigionia in Giappone. Al suo interno si nascondeva una tasca segreta, dove mia madre, Topazia, aveva inserito un taccuino e un lapis. Grazie a quel piccolo stratagemma, siamo riusciti a preservare intatti i ricordi di quel terribile periodo.”
È un incontro carico di emozioni profonde e riflessioni intense quello con Dacia Maraini, che ci parla del suo ultimo libro Vita mia; la scrittrice ha scelto di ripercorrere gli anni da sopravvissuta in Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Scrivere di quell’esperienza, ha spiegato, è stato doloroso: “Iniziavo e poi smettevo, ma considerato il periodo che stavamo attraversando, ho deciso di portare a termine il racconto. Era una testimonianza necessaria, un processo terapeutico e, allo stesso tempo, un recupero della memoria.”
La storia si colloca tra il 1943 e il 1945, quando la famiglia Maraini, trasferitasi in Giappone grazie a una borsa di studio ottenuta dal capofamiglia Fosco, noto antropologo, venne travolta dagli eventi del conflitto. “Eravamo contrari a ogni forma di razzismo e completamente estranei agli interessi politici. Tuttavia, a causa del regime collaborazionista guidato da Mussolini, alleato dei tedeschi e dei giapponesi, venne chiesto ai miei genitori di aderire alla Repubblica di Salò. Quando si rifiutarono, furono arrestati e io e le mie sorelle rischiammo di finire in un orfanotrofio, che poco dopo fu bombardato: tutti i bambini al suo interno morirono.”

Fortunatamente, la famiglia riuscì a rimanere unita, sebbene costretta a vivere in condizioni estremamente precarie durante la detenzione, con appena 20 grammi di riso al giorno per sopravvivere. “La fame era un tormento. Ho mangiato formiche, anche se facevano male, e persino topi, perché contenevano proteine, vincendo il disgusto per il loro odore nauseante.”
Nonostante tutto, i genitori riuscirono a mantenere vivo il morale delle figlie, trasformando momenti difficili in occasioni di apprendimento. “Mio padre ci insegnava la geografia e la matematica; mia madre ci parlava dei grandi poeti. Nei momenti più duri, ci facevano cantare le canzoni degli alpini, per farci dimenticare la nostra condizione.”
La solidarietà tra i prigionieri rappresentò una vera ancora di salvezza: “C’era sempre qualcuno disposto a condividere quel poco che aveva. Mia madre, per ottenere cibo, fece anche uno sciopero della fame e si impegnò in piccoli lavoretti, dai quali a volte riusciva a ricavare una cipolla o una patata.”
Un momento cruciale fu il gesto di estremo coraggio del padre, che si tagliò un dito per dimostrare ai carcerieri di non essere né un vile né un traditore. Questo atto, ispirato alla tradizione dei samurai, impressionò profondamente le guardie e portò alla famiglia una capra, il cui latte salvò loro la vita.
La testimonianza di Maraini assume un valore universale quando si sofferma sull’importanza della memoria: “Ne siamo figli, e ne abbiamo due intrecciate: quella personale, verticale, e quella storica, orizzontale. Quest’ultima, anche se non attraversata direttamente, deve essere conosciuta. La memoria è essenziale per non ripetere gli stessi errori.”
Tuttavia, l’umanità sembra incapace di imparare dal passato: “Abbiamo fatto progressi tecnologici, ma siamo rimasti indietro nei valori e nella sensibilità. La globalizzazione ha distrutto l’unità e la condivisione. I figli si educano con l’esempio, non con le prediche. Io ho avuto davanti a me due persone coraggiose che, pur di rimanere fedeli ai propri ideali, hanno affrontato la prigionia. Da loro ho imparato cosa significa essere integri.”
E ancora le chiediamo: Nella sua carriera ha attraversato molteplici generi: romanzo, teatro, poesia, saggistica. Ve ne è uno in particolare a cui si sente più vicina?
Io mi considero una raccontatrice di storie. Ci sono storie che possono essere raccontate solo con la lentezza e la complessità di un romanzo. Altre che esigono la concisione e la musicalità della poesia, altre ancora hanno bisogno solo di dialoghi.

Quali sono stati i momenti o le persone decisive che l’hanno ispirata ad intraprendere il percorso letterario?
Ho la fortuna di essere nata in una casa piena di libri. Inoltre tutti in famiglia scrivevano: mia nonna inglese scriveva libri di viaggio, mio padre ha sempre scritto, dalla parte di mia madre, lei scriveva racconti e il padre scriveva di filosofia. Ho cominciato a scrivere a 13 anni per il giornale della scuola e a 17 ho fondato una rivista. Ho sempre scritto.
Il suo modo di scrivere e raccontare storie nel corso degli anni è cambiato? E in quale modo?
Tutto cambia nella vita e tutto si ripete. Io mi considero abbastanza fedele al mio stile.
Il suo impegno per i diritti delle donne e il femminismo è un tema costante nella sua produzione. La scintilla iniziale che l’ha portata a battersi per queste cause?
La scintilla iniziale è stato il mio senso di giustizia. Fin da bambina mi sono indignata per le ingiustizie. E nella vita ho cercato sempre di intervenire, con il mio strumento che è la scrittura a denunciare e contrastare le ingiustizie. Per questo ho fatto molte inchieste sulle carceri, sui manicomi, sui senza tetto, sulle donne discriminate…
Come si colloca Vita mia all’interno del suo percorso letterario? È un punto di arrivo o l’inizio di nuove esplorazioni?
No, Vita mia è un libro che ho cominciato a scrivere anni fa, ma non riuscivo a portarlo avanti perché era come aprire delle ferite. Ma ora che stiamo vivendo minacce di guerre mi sono imposta di terminarlo. Credo sia utile dare una testimonianza di cosa possa essere una guerra per una bambina.
La sua infanzia trascorsa in parte in Giappone, ha influenzato il suo modo di vedere il mondo?
Certo. Ho imparato presto la fame, l’umiliazione, il dolore e la necessità di resistere. Tutto questo ha influito sul mio carattere.
Guardando alla sua carriera quale contributo crede di aver dato alla letteratura italiana e alla cultura in generale?
Questo lo lascio dire agli altri…