Passi, con sofferenza, l’agnello crudo alle ostriche. Passi, con ribrezzo, il limone glassato di muffa verde e imbottito con crema di meringa. Ma i piselli ripieni no: quelli mai, neppure nel peggiore degli incubi. Quelli sono soltanto una gigantesca presa per i fondelli. È assaggiando certi piatti mirabolanti, trovati nei menù della cucina-show di oggi, che i succhi gastrici di Mauro Bassini — giornalista, scrittore, ghiottone errante — hanno cominciato a ribollire minacciando di deflagrare. Come rispondere all’attentato che mette a rischio le papille gustative? L’unica era incanalare l’indignazione in una protesta civile formato pamphlet (e del resto sempre di lingua si tratta). Ecco quindi l’aureo libretto edito da Minerva che denuncia fatti e misfatti dei cuochi diventati di colpo e misteriosamente chef, vocabolo che fa tanto chic e poco arrosto. “Non c’è più gusto” è il titolo che gioca con le parole. Ma è soprattutto il sottotitolo a sbriciolare il bersaglio. Se il monumentale detective-gourmet Nero Wolfe si occupava dell’alta cucina del delitto, Bassini indaga sul “tentato suicidio della cucina italiana”. Ovvero il tragico harakiri dei cinque sapori base: dolce, salato, acido, amaro, saporito.
Da dove cominciare l’inchiesta? Chi è il colpevole dell’affronto? Ce n’è più di uno? L’intervista d’apertura — hors d’oeuvre — a Edoardo Raspelli, recensore e censore, principe dei critici culinari e re delle stroncature, circoscrive il campo degli indiziati. Il grande inganno sarebbe stato smascherato venticinque anni fa con una visita a El Bulli, il ristorante dello spagnolo Ferran Adrià sulla costa catalana. Raspelli condì la cena nel luogo simbolo della cucina contemporanea con un articolo al vetriolo, sintetizzato in una epigrafe storica: ventidue piatti di delusione. Perché la fantasia al potere va bene, va benissimo. Ma i sognatori devono avere i piedi fortemente piantati sulle nuvole, recita l’aforisma di Flaiano, altrimenti sotto il vestito niente (citazione dai fratelli Vanzina). Il risultato è che Adrià ha fatto cattiva scuola inaugurando “una lunga sbornia collettiva cresciuta in maniera impetuosa, dilagante, travolgente”, scrive Bassini. Rincarando la dose quanto basta: “La sbornia ha prodotto qualche grande chef e una marea di modesti e velleitari imitatori, ha gonfiato l’ego di tanti cuochi trasformandoli in maestri di pensiero e di vita, in filosofi predicatori, in personaggi carismatici, in star televisive, in signori dell’audience”.
Mettendo insieme aneddoti, ironia, testimonianze di veterani e semi esordienti, l’autore compone ai fornelli un atto d’accusa circostanziato. Che individua nel desiderio di stupire a ogni costo il responsabile di un risultato paradossale: la noia del cliente e l’incomunicabilità con il ristoratore. “È un problema italiano e internazionale”. spiega Raspelli. Il giudice eccellente taglia a fette “i menù ridicoli, con certi piatti che sembrano quadri di Pollock e hanno nomi più lunghi di un titolo della Wertmuller”. Sfere, gocce, schiume, cucina molecolare a oltranza, cottura a bassa temperatura per tutto: è l’estetica senz’anima a scapito del contenuto, ovvero la perfezione del nulla. “Quando si esce da locali così ci si chiede: adesso dove andiamo a mangiare?”, è l’amaro nel bicchierino di Bassini a fine pasto. Non resta che attaccarsi al dolce rimasto, che comunque esiste. L’ottima cucina regionale portata avanti dalle vecchie trattorie, per esempio. O i giovani emergenti che sono tanti e bravi, però andrebbero accompagnati da maestri come quelli di un tempo: Gualtiero Marchesi, Fulvio Pierangelini, Gianfranco Vissani e via discorrendo.
Non è così, perché lo spettacolo ha fatto più danni della grandine. “Il fenomeno Masterchef — sottolinea Bassini — dimostra che al picco degli ascolti corrisponde un boom degli iscritti nelle scuole alberghiere. Ma l’enfatizzazione della figura del cuoco ha relegato nelle retrovie l’importanza della sala, elemento che secondo Massimo Bottura vale il 51 per cento del successo”. Quanto alla sperimentazione, ben venga quella intelligente se ha imparato una lezione fondamentale: il buon ristoratore deve far quadrare i conti, magari restringendo la carta ma tenendo alta la qualità, unendo la ricerca alla tradizione, aggiungendo il valore delle materie prime. È l’unico modo per scongiurare il suicidio. “Lustrini e glorie effimere sono insegne che si vanno spegnando: è l’ora delle concretezza”, conclude Bassini. È con questa idea che il libro racconta storie di cucina comunque positive, mettendo il naso in posti storici o dentro novità a cui è giusto dare credito. Lì c’è ancora gusto, fortunatamente.