Rudyard Kipling, il romanziere britannico nato in India, coniò il celebre Oh, East is East, and/West is West, and never/The twain shall meet, ai suoi ventiquattr’anni, nel 1889, modificandone appena qualche verso avanti, il senso di totale opposizione tra i due punti cardinali indicati. Il delicato A Daughter of a Samurai della giapponese americanizzata Etsu Inagaki Sugimoto (1873-1950) uscito con enorme successo nel 1925 da Doubleday e tradotto finalmente in italiano quasi un secolo dopo grazie all’editore ObarraO (La figlia del samurai, traduzione di Giulia Masperi, si inserisce a giusto titolo in un dibattito irrisolto e probabilmente irrisolvibile, viste le ottime ragioni che sostengono sia la teoria sull’inconciliabilità tra culture e società dei cosiddetti ovest ed est, sia quella sulla loro possibile sintesi. Sugimoto è la dimostrazione palpabile di una sintesi sempre possibile.
Etsu-bō, nel romanzo e nella vita, fu figlia e discendente di Samurai, negli anni successivi alla cosiddetta restaurazione Meiji (1868) che, per la famiglia, comportò decadenza e impoverimento, e per il padre l’amara constatazione di appartenere a un’istituzione dismessa dalla storia. Originaria di Nagaoka, nell’allora provincia di Echigo, la piccola Etsu, alla nascita assegnata al tempio come futura sacerdotessa, crebbe indipendente e con un carattere che sapeva come farsi valere, nonostante fosse femmina in una società totalmente strutturata sul potere sacrale maschile. La figlia del Samurai accettava il posto che la tradizione le assegnava, ma cavalcava e studiava come facevano solo i maschi, meritandosi il suffisso bō che nel giapponese cerimonioso del tempo era attribuito esclusivamente ai ragazzi. Il padre per amore tollerava l’esuberanza paritaria di quella maschietta indomita, pur fissandole inevitabili paletti e mai rinunciando a trasferirle pillole di sapienza che appartenevano ai sacrali e venerati antenati.
La figlia, che contraccambiava l’amore paterno, si allineava ma non mancava di constatare, mettendosi dalla parte delle donne, “che il destino porta disagi e umiliazioni a persone incolpevoli [per via di] questo grande Potere scellerato.” Nel romanzo la sua radicale contestazione diviene esplicita: “Fin dall’infanzia sapevo, come tutti i giapponesi, che la donna è molto inferiore all’uomo. Non l’ho mai messo in discussione. Era il destino. […] Finalmente arrivò un giorno in cui il mio cuore scoppiò in un’aperta ribellione.”
Quando i sommovimenti sociali e politici avranno sgretolato l’ordine feudale e il padre sarà passato alla vita successiva prevista dallo shintoismo, Etsu si ritroverà promessa dal fratello emigrato negli Stati Uniti a un commerciante nippo-statunitense di Cincinnati, che le garantirà, attraverso uno dei “tre inevitabili” (gli altri due: nascita e morte!), la dignità di donna accasata. Il fratello l’accompagna a Tōkyō dove, in una scuola metodista, studia in vista del trasferimento oltreoceano; lì si fa cristiana, scontentando madre e famigli. Etsu è ora pronta: “ragazzina sola”, parte per un lungo viaggio che la porta a San Francisco e da lì dallo sconosciuto promesso Sugimoto.
Nel racconto intimo e fascinoso dell’autrice, il personaggio romanzato si ritroverà calato simultaneamente dentro due mondi: l’arcaico della formazione e il nuovo della maturazione come donna, sposa e madre americana. Intelligenza e sensibilità la spingono ad apprezzare il nuovo senza cestinare quanto le arriva dagli antenati, capendo tuttavia abbastanza presto quanto il suo corpo e la sua anima tendano inesorabilmente ad amare la libertà e il senso di festosità creativa che la società statunitense le trasmette.
Scrive nel romanzo: “La mia infanzia era stata serena, ma non aveva mai conosciuto un solo palpito di ciò che si può chiamare gioia. […] Attribuisco questa tendenza morbosa all’insegnamento buddhista…; perché in tutto il pensiero buddhista c’è un filo di tristezza senza speranza.” Rigetta gli stereotipi, valorizza ciò che nelle due culture ritiene più giusto, arricchendo se stessa e le due figlie dell’armonia che riesce a creare. Quando, alla morte del marito, sarà costretta a tornare in Giappone, le figlie saranno pronte ad allinearsi sulla tradizione degli avi e a diventare delle vere giapponesi, ma nel buio delle loro stanze e quando sanno di non essere viste dalla madre, piangono per il rimpianto della casa americana.
Nella vita reale, Etsu rientrerà con le figlie negli Stati Uniti, stabilendosi a New York, dove si concentrerà sulla letteratura insegnando alla Columbia University lingua, cultura e storia giapponese, scrivendo su quotidiani e riviste. Nel romanzo, si ferma alle difficoltà del reinserimento nella società nipponica non senza aver constatato che “i cuori sono gli stessi in entrambe le parti del mondo, ma è un segreto che è nascosto alla gente dell’Est e nascosto alla gente dell’Ovest”.