Saranno stati i natali campani a consigliare all’ex ministro e giudice della Corte Costituzionale Sabino Cassese, di rifarsi, per il suo libro sull’Italia, alla commedia dialettale d’arte napoletana, non solo nel titolo – Miseria e nobiltà – ma nella costruzione stessa del testo. Si nota, dall’avvio, che l’autore ha scelto di stare alla larga dalla sua profonda cultura giuridica, facendo interloquire i personaggi che mette in scena in un linguaggio a tutti comprensibile.
La miseria commista alla nobiltà riporta al Totò del film che Mario Mattoli diresse nel 1954, con la partecipazione di una ventenne Sophia Loren. Il film fu tratto dall’omonimo lavoro teatrale del 1888 di Eduardo Scarpetta. A fondamento della commedia, un complesso intrigo, che componeva amori e matrimoni grazie ai limiti che, nella pratica quotidiana, incontravano i valori di perbenismo e famiglia proclamati dall’ipocrita retorica della neonata Italia unitaria.
Ed è l’intrigo – passione nazionale e professione dei politici – il filo rosso che lega la narrazione di Cassese quando racconta le vicende della politica politicante italiana. Vi echeggia il conflitto di fondo che nella commedia di Scarpetta si agita all’interno dei nuclei relazionali intrecciati dalla trama. Questi si ricompongono e pacificano per casualità o mero calcolo d’utilità, non per un dovere morale che guardi oltre il contingente: «pe’ sta cumbinazione» direbbe Bettina, moglie del personaggio principale, lo squattrinato Felice (casualmente ritrovato, dopo sei anni di separazione). Le parole di Felice Sciosciammocca (Totò nel film) nelle battute finali della commedia, fotografano quella che per la stragrande maggioranza della popolazione era ed è la stabile situazione italiana: «tante guaie, fra la miseria vera e la falsa nobiltà».
I trentuno dialoghi di Cassese, usciti mensilmente su Il Foglio dal 2021 e ora raccolti in libro, sono tenuti insieme dalla consapevolezza che le contraddizioni italiane appaiono difficili da sciogliere, perché hanno radici profonde che nessun ceto politico o imprenditoriale ha inteso recidere. Il paese “prismatico”, come lo definisce l’autore, è anche difficile da curare, tante e così enigmatiche appaiono le sue contraddizioni, la più profonda delle quali è che i suoi cittadini sono simultaneamente italiani e antitaliani. Cassese fa parlare le antitesi: riformista e illuminista, statalista e globalista, militarista e pacifista, ricco e povero, nazionalista e europeista, e via di seguito sino al corrente scontro tra parlamentaristi e presidenzialisti, pacifisti e militaristi.
La polifonia dell’impianto dà voce alle anime dell’autore che s’incontrano e scontrano sulle varie tematiche, quel tanto che serve per schiarirsi le idee su leggi e deroghe, comportamenti della burocrazia, fatti e misfatti repubblicani, consenso o non sull’Ue, riforme e ruoli nelle istituzioni, giustizia e ingiustizia del sistema giudiziario con gli interrogativi sugli obiettivi dei suoi presunti riformatori.
Gli ultimi due dialoghi e i loro protagonisti meritano un esame a parte, per la rilevanza che assumono ai nostri giorni.
Di “pace e guerra” discutono un “democratico”, un “globalista”, un “filoccidentale”, un “filorientale”, un “liberale”, ognuno con le sue ragioni. L’ultima parola spetta al democratico, che in realtà la cede al Victor Hugo che, nel 1863, nel pieno dell’aggressione russa (tanto per cambiare!) alla Polonia, s’appellò all’onore degli ufficiali dello zar chiamandoli alla rivolta contro il dispotico «macellaio delle nazioni» e a fraternizzare con i polacchi che rivendicavano «il primo dei diritti, il diritto alla patria». Cassese incornicia in una pagina e mezza la citazione storica, senza un suo commento: e chi vuol capire, capisca. Ai testa dura, il profetico Hugo direbbe (sempre dalla citazione):«I crimini della forza sono e restano crimini».
Di “pace giusta” e di “lezioni dalla guerra” discutono ancora – dopo una dotta breve introduzione del giurista Cassese – un “militarista”, e un “pacifista”. Si lasciano con dubbi irrisolti, persino sull’uso del termine “guerra”.
Sul “tramonto dell’occidente” intervengono un “declinista” e un “antideclinista”. A chiusura questo afferma: «[…] la costituzione di reti universali, sia pure piene di buchi, ha prodotto, dalla Seconda guerra mondiale in poi, un minor numero di conflitti e comunque conflitti bellici locali. Quest’altro successo della globalizzazione non dovrebbe far temere un tramonto dell’Occidente”.
Sabino Cassese
Miseria e nobiltà d’Italia – Dialoghi sullo stato della nazione
Solferino, 2024