E’ una New York che non esiste più quella descritta da John Gleeson in “The Gotti Wars: Taking Down America’s Most Notorious Mobster”, ora scrittore per hobby e avvocato di successo in una delle ditte legali più prestigiose di New York, la Debevoise & Plimpton, dopo essere stato assistente procuratore federale e poi magistrato federale.
Nel suo libro Gleeson ricorda la feroce guerra che la procura federale di Brooklyn, l’Eastern District, allora guidata da Dianne Giacalone, aveva lanciato contro il capo della famiglia Gambino. E ricorda l’amarezza subita per l’assoluzione di Gotti al primo processo, vendicata poi dopo numerosi anni, quando gli agenti federali riuscirono a scoprire che uno dei giurati era stato contattato dalla mafia e che in camera di consiglio fece di tutto per convincere gli altri sulla pochezza delle prove e delle testimonianze che non scalzavano i ragionevoli dubbi dell’innocenza del boss. Un’assoluzione che diede il mantello dell’intoccabilità a Gotti che dopo questa prima vittoria venne chiamato il gangster di teflon, perché tutte le accuse scivolavano via. Impeccabilmente vestito, con il suo sorriso graffiante e gli occhi vispi, al volante della sua Mercedes nera, Gotti creò il personaggio del boss intoccabile. Ma la fortuna, come tutti i giocatori d’azzardo ben sanno, non dura all’infinito.

Erano altri anni quelli in cui Dianne Giacalone, allora alla guida della procura federale di Brooklyn, e Rudy Giuliani in quella di Manhattan martellavano Cosa Nostra con le loro indagini: dalla Pizza Connection alla Iron Tower. Vicende giudiziarie che avevano come protagonisti Dianne Giacalone, di Ozone Park a Queens, proprio come John Gotti. Lei andava alla scuola cattolica “Our Lady of Wisdom”. Per il boss, più grande di Diane di 10 anni, la scuola era il Bergen Fish and Hunt Club, dove i mafiosi della Gambino si riunivano. E per una strana coincidenza la scuola e il club erano tutti e due sulla 101st Avenue a Queens a circa 200 metri di distanza l’uno dall’altro.
Nel 1985, sei settimane dopo aver prestato giuramento come assistente del procuratore degli Stati Uniti nell’Eastern District di New York, Gleeson è stato incaricato di assistere Diane Giacalone nelle indagini su Aniello DellaCroce, vecchio underboss della famiglia criminale Gambino accusato di omicidio e usura. Nel processo uno dei coimputati era John Gotti.
“C’era qualcosa di speciale in Gotti”, scrive Gleeson. “DellaCroce era l’underboss, ma era vecchio e fragile e sembrava come se fosse stato portato in aula da una casa di riposo. Gli altri imputati erano disorientati dalla formalità dell’ambiente e a disagio. Tutti orbitavano attorno a Gotti, che era sicuro di sé, bello, ben vestito, completamente in controllo e responsabile non solo degli altri imputati ma anche dei loro avvocati”.
In quel tempo il leader della famiglia Gambino era Paul Castellano. Sebbene lui e Gotti si detestassero reciprocamente, Aniello DellaCroce era riuscito a mantenere la pace. Ma quando DellaCroce morì di cancro il 2 dicembre 1985, Gotti prese al volo l’occasione. Ignorando le rigide regole della mafia sull’eliminazione di un boss, due settimane dopo uccise Castellano mentre entrava nel ristorante Sparks Steak House, alla 46ma Strada e Terza Avenue a Manhattan. Dopo l’omicidio Gotti si proclamò nuovo boss della famiglia Gambino. La scomparsa di Paul Castellano catapultò l’inchiesta sulle attività criminali di Aniello DellaCroce trasformandola nel “caso Gotti”. In qualità di giovane avvocato, il lavoro principale di Gleeson era quello di vagliare centinaia di ore di intercettazioni telefoniche.
Il primo processo federale contro John Gotti iniziò finalmente il 26 settembre 1986. L’avvocato di Gotti, Bruce Cutler, nel corso del processo in modo molto teatrale affermò che la mafia non esisteva. Che era tutta invenzione del sensazionalismo dei media. Nella sua arringa finale ha descritto Gotti come un uomo orgoglioso e laborioso, il tipo “che ha reso grande questo Paese”. Ha detto che i pubblici ministeri avevano creato un’atmosfera simile a quella della caccia alle streghe durante il maccartismo. “Quindi -scrive Gleeson -, dichiarando immondizia l’atto d’accusa, prese il fascicolo e lo gettò nel cestino della carta straccia del magistrato”. Alla fine del processo tutti gli otto imputati, incluso John Gotti, vennero assolti.
Il Dipartimento della Giustizia però non si diede per vinto. Ci vollero alcuni anni per trovare le prove del gioco d’azzardo illegale, due omicidi, un paio di accuse di ostruzione alla giustizia e, il punto debole di ogni gangster, la frode fiscale, perché Gotti affermava di guadagnarsi da vivere come venditore di chiusure lampo per abiti nel Garment District e venditore di attrezzature idrauliche. E nel Dicembre del 1990 iniziò il secondo processo.
Una volta divenuto boss della famiglia Gambino, Gotti dava udienza al Ravenite Social Club in Mulberry Street a Manhattan. Qui si decidevano le operazini e divideva il bottino… e gli agenti federali ascoltavano. Avevano messo i microfoni per intercettare le conversazioni. Gotti aveva il sospetto che ci fossero ascoltatori indesiderati e per questo aveva affittato un appartamento al piano di sopra dello stesso stabile in cui teneva le riunioni delicate. Ma non sapeva che gli agenti federali avevano messo sotto controllo anche quello.
Quando cominciò il secondo processo Gotti alcune cose erano cambiate. Gleeson era ora il procuratore capo antimafia. Gotti aveva un nuovo avvocato, ma soprattutto, l’accusa aveva una nuova arma: il braccio destro di Gotti, Sammy “The Bull” Gravano che si era “pentito”. Gli inquirenti gli fecero ascoltare i commenti che John Gotti faceva quando lui non era presente. Lo riteneva incapace di guidare l’organizzazione. Gravano, ferito nell’orgoglio di mafioso, patteggiò la sua testimonianza e la sua colpevolezza: se il Dipartimento della Giustizia gli avesse promesso protezione e non più di una condanna a 20 anni, avrebbe vuotato il sacco. La Giustizia, come la Fortuna, si bendò gli occhi e gli “perdonò” i 18 omicidi che aveva commesso e in aula Gravano ricostruì la dinamica dell’uccisione di Paul Castellano ricordando come Gotti si fosse seduto in macchina di fronte al ristorante, aspettando l’arrivo del capo della Gambino dando con il walkie talkie l’ordine dell’esecuzione. E il processo contro il Don di teflon finì lì.
Condannato all’ergastolo John Gotti morì nel carcere federale di Springfield in Missouri nel 2002.