Il libro nero delle stragi di Stato. Il fuoriscena del potere in Italia dal delitto Mattei agli attentati contro Falcone e Borsellino (Chiarelettere, pp. 1.092, € 25) È questo il titolo completo del volume (di quattro libri) scritto a quattro mani da Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, cronisti giudiziari per più di trent’anni in Sicilia.
I quattro titoli riproposti qui in forma assemblata sono: L’agenda rossa di Paolo Borsellino (2007), Profondo nero (2009), L’agenda nera della seconda Repubblica (2010) e DepiStato (2019).
Il loro lavoro è un ottimo vademecum per chi desidera nutrirsi di fatti, eventi storici, nomi e cognomi, e di luoghi chiave. È soprattutto utile per farsi un’idea di dove siamo oggi. Dove – come società, come nazione e come mondo. In che mondo viviamo?
Questo è uno dei fini ultimi del buon giornalismo: che informi, che descriva, che a volte illumini. Quant’è difficile, rendersi conto, intravedere che ci siano luci possibili in una Storia cosi nera quanto quella dell’Italia e della sua piaga mafiosa. Ma il conoscere, nei limiti del possibile e con le dovuti attenuanti del caso, è l’unico modo che abbiamo per affrontare di petto così tanti segreti, misteri, e verità inconoscibili. D’altronde è assioma che alcuni dei migliori storici italiani abbiano iniziato come buon giornalisti.
Abbiamo sentito uno dei due autori, Giuseppe Lo Bianco, sulla pubblicazione di questo grande e fondamentale volume.
Avete vissuto in modo particolare questi ultimi anni del processo Trattativa Stato-Mafia – con le sentenze di primo e secondo grado – dove sono venuti a galla tanti fatti ed eventi che avete coperto nel vostro lavoro di cronisti quotidiani all’epoca?
LO BIANCO: Penso di averli vissuti come un cronista che ha lavorato in una realtà difficile, come quella siciliana degli anni ’80 e ’90, ma anche di quelli successivi. È vero, tanti episodi (penso all’attentato dell’Addaura, ma anche alla mancata cattura di Provenzano nel 1995 a Mezzojuso e altri) li ho ritrovati nelle carte del processo della Trattativa Stato-Mafia, a conferma che la realtà delle indagini antimafia di quegli anni era assai complessa, e che sbagliava chi si fosse fermato ad una lettura superficiale e apparente degli eventi, senza inquadrarla dentro una conoscenza storica del fenomeno mafioso. Fin dal 2006, l’anno della cattura del boss corleonese Provenzano, con la collega Rizza decidemmo di scrivere una ‘’contro-storia’’ di quell’arresto, che l’informazione italiana aveva troppo frettolosamente innalzato a simbolo della sconfitta mafiosa – una mafia, peraltro, del tutto irreale, rappresentata da un vecchio contadino con coppola e lupara, arrestato in un casolare tra la ricotta e la cicoria che comunicava con i suoi complici con arcaici pizzini sgrammaticati.
Ci sono molti stereotipi sugli italiani e, in particolare, sui siciliani. I non-italiani identificano la Sicilia con la mafia e i siciliani con un senso atavistico dell’onore, del clan e della famiglia. Anche molti italiani continentali, per non essere da meno, vedono i siciliani come “altro”, un popolo isolano molto diverso da quelli dello Stivale. La storia trattata dai libri di questa raccolta parla di un luogo indisciplinato che sfugge a ogni classificazione. Ma dove c’è un ordine imperiale delle cose allora c’è anche questa lucida analisi che, in sé, ha a che fare con il disordine: un modo di essere “selvaggio”, all’interno di quel modo più conformista; dove non ci si sottomette alla regola, con un modo di insistente inconsapevolezza, un’ontologia resistente, e una quasi fantasia di vita al di là di quella che si trova tutto intorno; che c’è chi rimane a vivere in un contesto con delle regole non-scritte ma senza la minima intenzione di rispettare quelle stesse regole, di sottomettersi a quella cultura dominante per poi raccontare i fatti di quel contesto con persistenza.
Da siciliani, capi famiglia, cittadini e scrittori ‘impegnati’, con un robusto senso del civile, queste opere vi hanno portato a vedere quelle stesse dinamiche – vissute prima, certo, qua e là da persone fisiche – in un modo diverso a forza di raccontare gli eventi degli ultimi decenni in modo così ricercato e dettagliato?

LO BIANCO: Un giornalista ha un grande privilegio: oltre alla sua, a volte vive le vite della gente di cui si occupa, per ragioni professionali. Scrivendo da oltre 35 anni di un mondo di orrori, non solo fisici, ma anche per i modi in cui mafiosi e servitori dello Stato corrotti hanno calpestato regole fondamentali della convivenza civile, può capitare di assuefarsi, di dare per scontate dinamiche che per i lettori invece non lo sono. In questo contesto può accadere di rivedere qualche giudizio espresso in anni precedenti, l’importante è non abbassare l’asticella della bussola etico-deontologica che ti ha spinto a fare questo mestiere.
Per andare ai suoi riferimenti, e al cuore della domanda, penso che al di là della retorica un cronista è tale solo se racconta verità scomode. E questo vale a prescindere dai riferimenti geografici e antropologici, vale sia a Milano che a Palermo. Non penso di avere avuto un’ontologia (né una deontologia) resistente, penso di avere raccontato una fetta di cronaca giudiziaria italiana approfondendola nei suoi aspetti più occulti, che hanno incrociato la storia di questo Paese. E penso anche che la trattativa, il ‘’pattio’’, sia connaturata alla mentalità siciliana, una sorta di strumento negoziale per non inginocchiarsi di fronte alle dominazioni che si sono succedute nei secoli in Sicilia. Detto questo, dopo 35 anni ho ancora ben chiara e radicata nella mia coscienza l’incompatibilità assoluta tra Stato e mafia che determina l’impossibilità etica prima ancora che giuridica, di trovare cause di giustificazione ad eventuali trattative. Non può esistere uno Stato che non detiene il monopolio delle armi sul proprio territorio.
Come dei pensatori “selvaggi” – insistendo a ragionare diversamente di fronte alla tentata dominazione bruta – voi autori ispirate noi lettori a ripensare i grovigli della libertà, del dominio, del dogma conformista e della vera conoscenza. Ma ora, a valutarla con distacco di fronte a questo volume-raccolta, pensate che l’assoluta tenacia del vostro lavoro (indagine, interviste, ricerche, documenti, scrittura di tanti libri) vi abbia mai causato sorpresa o sconcerto personale?
LO BIANCO: Direi di no, non credo di avere profuso particolare tenacia nel mio lavoro di cronista. Ho solo cercato di interpretare i fatti leggendoli, per quanto possibile, nell’ambito di una prospettiva più ampia di quella circoscritta al singolo evento di cronaca. E questo, ad un certo punto della mia esperienza professionale, è stato possibile solo grazie ai libri. Con Internet il giornalismo è cambiato profondamente da quando ho iniziato a fare questo mestiere, ma un concetto è e resterà inalterato: per quanta tenacia ci metta, nessun giornalista ha la verità in tasca da rivelare.
Le forze del pensiero anti-mafia, rappresentate da quelli spettacolarmente in vista negli ultimi anni, hanno subito non pochi colpi di delegittimazione. La chiara delineazione del calvario trentennale degli eventi tracciati nei vari libri ha fatto meravigliare chi scrive: “E se non fossimo gli autori della rivoluzione, ma i padroni che devono essere rovesciati?” Quell’idea di cercare il mafioso dentro, che Rita Atria ha caldeggiato con intensità nel suo ultimo diario. Sembra contribuire molto – alle difficoltà che i sterminati vari soggetti-protagonisti, (Libero Grassi, Giovanni Falcone) i vari collaboratori di giustizia (Vitale, Buscetta, Spatuzza) e i vari cronisti necessariamente impegnati (De Mauro, Fava, Rostagno) hanno affrontato – quel contributo dei cosiddetti “buoni indifferenti” e dei cosiddetti “buoni in difesa”, che si limitano a osservare e in qualche modo giustificare la loro passività dando dell’esibizionista al “buono” che si attiva. Ha delle osservazioni in merito?
LO BIANCO: Intanto diffido a priori delle classificazioni in buoni e cattivi, la vita reale (e la lotta alla mafia) ha molte più sfumature delle semplificazioni giornalistiche. Che oggi la parola “Antimafia” sia profondamente delegittimata e da rifondare, soprattutto sul versante sociale, meno parolaio e più attento ai diritti, è un dato di fatto. Non ho mai pensato all’Antimafia (né sociale né giudiziaria) come a una rivoluzione, ma come un costante innesto di anticorpi sani in un corpo sociale profondamente segnato dal familismo amorale, soprattutto a livello di classi dirigenti ma non solo: spesso anche nell’elettorato chiamato ad esprimerle. In questi 30 anni i passi avanti sono stati tanti, ma molti sono quelli ancora da fare.

Gran parte della resistenza riguarda il perdere gli orientamenti sociali e talvolta addirittura quelli familiari; il sentirsi soli, trovarsi in quello spazio controintuitivo in cui si libera dalla consapevolezza evidente che la mentalità mafiosa sta vincendo, altro che poterla limitare o delegittimarla realisticamente. Falcone ha detto: “Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini [ndr], ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni” Essendo magistrato è ovvio che lui avrebbe visto questa battaglia nell’ottica delle istituzioni delle quali Falcone è stato un grande servitore. Ma la storia della maggior parte dei resistori storici è effettivamente composta di “inermi cittadini”.
Studiare per raccontare il loro esempio di scelte di vita ha contribuito a farvi sentire più a vostro agio con l’idea che anche voi potete trovarvi intimamente in quello spazio sconcertante che non è né lo spazio del sovrano né lo spazio dei dominati?
LO BIANCO: Da quando ho iniziato a scrivere io sono in quello spazio che lei ben descrive, ma che non definisco per nulla sconcertante: è lo spazio del giornalismo per definizione ontologica, che non sta al di sopra o al di sotto del potere (o del sovrano) né in quello dei dominati, ma sta soltanto su una seggiola diversa. L’esempio di chi ha perso la vita nella lotta contro la mafia, specie se, come lo definisce lei, ‘’cittadino inerme’’, mi è servito da stimolo ulteriore per tenere orientata la bussola professionale verso le ferite inferte alle vittime e la ricerca di una verità possibile.
Mettiamo che sia dato per scontato che abbiate scritto in modo maestoso sulle pagine più nere dell’Italia mafiosa e corrotta (sappiamo che siete voi due che avete ispirato il movimento Agende rosse, con il vostro libro omonimo del 2007, i primi a sollevare e mettere insieme le retroscene e i dettagli di quella ovvietà inosservata per prima, per dirne solo una). Vorrei addentrare nell’aspetto umano, tipo, come riuscite(!?) a sopportare tutte quelle bruttezze e quel vero male che avete indagato e rapportato? Senza però intendere la domanda come una morbosa e gratuita invasione dello spazio psicologico-personale. Per chi scrive, quell’aspetto, però, è uno dei più singolari dei vostri concentrati sforzi professionali.
Cosa fa uno studioso italiano lucido e intellettualmente coraggioso, alle prese con così tanto male, a trovare un senso alla vita, trovare l’equilibrio a incassare, conoscere e sapere che c’è molta oscurità nella società e nelle classi dirigenti, senza andare via, senza soccombere e senza girarsi dall’altra parte? C’è un modo elegante per fare la domanda? Meglio non farla del tutto? Questo mi chiedo e le chiedo, con rispetto.
LO BIANCO: Apprezzo la sua domanda, me lo sono fatta da solo, più volte: e ho anche una risposta. Ma mi permetta di tenerla per me.