Nell’anno in cui ricorre il centenario della scomparsa del mito della lirica Enrico Caruso, la recente pubblicazione del libro Caruso & Friends – La nascita del re dei tenori di Maurizio Sessa (Florence Art Edizioni), prendendo spunto da una raccolta di fotografie inedite reperite nei mercatini antiquari, ci aiuta a ricostruire frammenti importanti della biografia del grande tenore, dagli esordi nel 1894 fino alla conquista dell’America nel 1904. Il giornalista e scrittore Maurizio Sessa racconta la genesi dell’opera e la parabola esistenziale di Caruso che, animato da carisma, talento e una personalità vulcanica, dalle umili origini alla conquista dell’America, incarna perfettamente il sogno americano.
Da dove nasce la sua passione per il grande tenore Enrico Caruso e quando ha deciso di scrivere un libro a lui dedicato?
“Il libro nasce da due passioni concomitanti. Sono nato a Napoli, ma da quando ero bambino vivo a Firenze, e in casa il nome di Caruso circolava, eccome. Il caso poi ha voluto che sia nato nel suo stesso quartiere e mia madre questa coincidenza me la ricordava con fiero orgoglio. Da adulto ho incrociato di nuovo il tenore partenopeo grazie alla passione per le opere di Giacomo Puccini. Del compositore lucchese ho recentemente curato la pubblicazione di un epistolario in cui si parla, appunto, anche di Caruso. Puccini pensò di affidargli il ruolo da protagonista in Conchita, un’opera a lungo meditata ma irrealizzata”.
Quale arco temporale della sua vita viene illuminato in particolare?
“L’arco temporale spazia dal 1894 al 1904, dallo sconosciuto Enrico Caruso debuttante nella sua Napoli al Caruso che “voce in resta” si è lanciato alla conquista del Metropolitan Opera House di New York. Il libro, ci tengo a precisare, non è e non vuole essere una biografia, bensì un omaggio in occasione del centenario della scomparsa, in cui si cerca di raccontare la nascita di un mito”.
Aveva un disegno in mente oppure la sua opera di ricostruzione del mosaico esistenziale di Caruso si basa su reperti casuali e fortuiti?
“Come per tutti i miei libri, la molla iniziale è il collezionismo che da molti anni mi spinge a cercare documenti inediti. A differenza di altri collezionisti, se lo ritengo opportuno, cerco di mettere a disposizione, di rendere di pubblico dominio le mie piccole o grandi “scoperte”: da Giuseppe Garibaldi a Giacomo Puccini, da Giovanni Papini a Filippo de Pisis e Riccardo Bacchelli, per citarne alcuni”.
In generale, è complicato reperire i documenti che riguardano la biografia del tenore?
“Qui tocchiamo un aspetto nevralgico e direi delicato: la dispersione delle fonti documentarie. Non è facile studiare Caruso in modo organico e sistematico. Già il materiale a stampa (dischi, libri, articoli, atti di convegni) non è facilmente reperibile. A ciò si aggiunga che i documenti che ci ha lasciato sono sparsi in tutto il mondo, a riprova della sua fama e della sua popolarità internazionale. Cosi abbiamo il Caruso di Napoli, il Caruso di New York, il Caruso di Lastra a Signa (alle porte di Firenze era proprietario di una magnifica villa con parco oggi diventata un museo). Questo frazionamento certo non agevola il lavoro degli studiosi. Si pensi che appena qualche anno fa, a Londra, sono state battute all’asta oltre trecento lettere di Caruso. Che cosa raccontano? Dove sono andate a finire? E saranno pubblicate? Tutte domande ancora senza risposta, purtroppo”.
Caruso era un collezionista di cartoline; lei mette insieme i tasselli sparsi della vita del Maestro partendo da fotografie ritrovate nei mercati antiquari. Pensa di essere riuscito, attraverso le immagini, a consegnare ai lettori una visione omogenea della sua vita?
“Se sia riuscito o meno a dare un’immagine plausibile e vicina al vero di Caruso dovranno stabilirlo eventualmente i lettori. Ho cercato, questo sì, di sfatare alcuni luoghi comuni, alcuni aneddoti che nel corso del tempo si sono depositati sulla sua immagine rendendola un po’ troppo pittoresca, una sorta di “santino”. Per quel che riguarda le cartoline, Caruso aveva una predilezione particolare per quelle che ritraevano gli usi e i costumi della Santa Russia degli Zar”.
Che uomo era Caruso nel privato? E rispetto a cosa si discostava dal mito?
“In base a quanto ho detto prima, siamo davvero sicuri di conoscere appieno Caruso? Io nutro qualche dubbio al riguardo. Il personaggio Caruso resta per certi aspetti ancora tutto da scoprire. Nel privato era un uomo che pur avendo ottenuto un successo planetario non dimenticò mai da dove era partito. Era un mito, diciamo, con i piedi per terra. Era un divo che nel privato non assumeva pose da superuomo. Anche le star, al di là delle apparenze, amano e soffrono. E il mondo dell’opera lirica, poi, già all’epoca non era tutto oro che luccica”.
Il titolo del libro è “Caruso&Friend”. Quali altre figure vengono riscoperte nel libro?
“Nella galleria di amici di Caruso primeggia Nellie Melba, la superba e strapagata soprano australiana, l’incontrastata regina del Covent Garden di Londra, con la quale Caruso non ebbe però rapporti di lavoro propriamente idilliaci. Altra figura di spicco, il romano Mattia Battistini, ribattezzato dalle platee osannanti il “re dei baritoni”. Vedere e ascoltare assieme il re dei baritoni e il futuro “re dei tenori” doveva essere qualcosa di veramente straordinario. Nella carriera di Enrico ebbe un ruolo importante il compositore calabrese Francesco Cilea, uomo e musicista appartato, l’antidivo fatto persona. Poi, nel 1904, nella magica Praga, Caruso strinse idealmente la mano all’inarrivabile Richard Wagner quando conobbe, avendone in cambio una foto autografata, Angelo Neumann: cantante, direttore d’orchestra, impresario e biografo del fautore dell’“opera d’arte totale”. Infine, non dimentichiamoci di Giuseppe Belletti, un impresario che Caruso incrociò a Bologna e di cui non si trova traccia alcuna nemmeno nelle più dettagliate biografie carusiane”.
Il “re dei tenori” aveva una carriera internazionale e viaggiava in giro per il mondo. Che ruolo avevano le amicizie nella sua vita?
“Per il globe trotter dell’opera lirica Enrico Caruso l’amicizia occupava un posto importante, anche se andò incontro a disillusioni come qualsiasi altro comune mortale. Era un uomo molto generoso. Dopo l’uscita del libro sono stato contattato da una sua discendente. Mi ha assicurato che dopo la sua dipartita si scoprì che non si era dimenticato di nessun parente. Aveva un gran cuore. A tutti i congiunti vicini e lontani aveva lasciato, oltre al ricordo del suo sorriso espansivo, un dono pecuniario…”.
Che ruolo aveva invece l’amore?
“Per amore Enrico pianse davvero lacrime e infamità. Il suo grande amore fu la soprano fiorentina Ada Giachetti. I due si conobbero al Teatro Goldoni di Livorno cantando nella Bohème di Puccini. E cantando si innamorarono, malgrado Ada fosse sposata e avesse un figlio. La loro relazione creò scandalo. Mica c’era il divorzio allora. La loro non fu una storia con il classico happy ending. Malgrado la nascita di due figli, finirono per allontanarsi sempre più per molteplici incomprensioni. Nel 1908 un altro episodio clamoroso: Ada abbandonò il tetto coniugale, scappando con il suo autista. Apriti cielo! La stampa si impossessò dello scoop. Il loro grande amore naufragò nelle aule di un tribunale. Comunque, Caruso non abbandonò mai definitivamente Ada, madre dei suoi figli, e la sostenne economicamente sino alla fine dei suoi giorni”.
È diventata celebre un’affermazione di Caruso: “La vita mi procura molte sofferenze. Coloro che non hanno mai provato niente, non possono cantare”. Crede che la sua vita difficile e costellata da molte sofferenze, tra amori sfortunati e critiche professionali, abbiano conferito qualcosa in più al suo canto?’
“Per parafrasare la Tosca di Puccini, Caruso visse d’arte e visse d’amore. Ma visse anche di cocenti delusioni pubbliche e private. Sebbene divenuto ricchissimo grazie alla sua inimitabile voce, Enrico non si levò mai completamente di dosso la povertà dello scugnizzo dei vicoli. Certe stimmate non si rimarginano mai. La voce di Caruso, combattuto com’era dal dubbio di possedere la corda baritonale, risuova umana, troppo umana. Non era il classico virtuoso belcantista. Il pubblico di tutti i ceti sociali avvertiva nel suo timbro un impasto di gioia e dolore. Caruso non interpretava. Lui e il personaggio erano tutt’uno. Non li distinguevi più”.
Lei crede che abbia trovato negli Stati Uniti la sua patria elettiva? Perché è tanto amato negli States?
“Un italiano a New York senza valige di cartone chiuse con lo spago… E chi non lo avrebbe sognato allora? Caruso era già Caruso prima di salutare per la prima volta, nel 1903, Miss Liberty, la Statua della Libertà. Nella nuova Terra Promessa ritrovò l’amore: nell’estate del 1918 sposò Dorothy Benjamin, affettuosamente soprannominata Doro, una ragazza statunitense di buona famiglia, dalla quale ebbe una figlia, Gloria. Un nome, questo, che voleva essere un omaggio alla Paese che lo aveva accolto calorosamente, donandogli la gloria. È innegabile che gran parte della marcia trionfale di Caruso si srotolò sul red carpet dell’American Way of Life. Qui conobbe il trionfo: la consacrazione artistica, i compensi stratosferici. Qui entrò nel Pantheon degli immortali. Ma è altrettanto vero, o almeno a me piace pensare così, che Caruso con il suo esempio, un dono di natura innestato a uno sforzo titanico perché nessuno “nasce imparato”, rappresenta un bene di tutti, è davvero e non solo per modo di dire Patrimonio dell’Umanità. Non resta, infine, che arrendersi alle parole di Fedele d’Amico: “Caruso fu per tutti il rapimento irrazionale di fronte a un fenomeno oltre ogni spiegazione”.