
Nico (Women Plot, 2021) è il primo romanzo di Michela Polito. La trama, costruita attraverso un intreccio e un parametro linguistico irriverente ed esistenzialista, ruota intorno alla protagonista Nico. Come quella dei Velvet Underground, dice lei. Sulle orme dei suoi maestri americani tra cui Henry Miller, Bukowski e John Fante, Michela estrapola i tabu dei contesti popolari tra desideri, dipendenze, amori e fallimenti. Li trasforma in uno schiaffo morale narrativo, e crea un romanzo generazionale. L’autrice nasce a Genova nel 1981 e si laurea in Lettere all’Università di Firenze. Subito dopo si iscrive alla Scuola Holden, iniziando un percorso di scrittura e riscrittura che durerà 13 anni. Grazie all’intervista pubblicata qui su La Voce di New York, Michela viene a conoscenza di Women Plot, arrivando a quella che definisce una pubblicazione dal valore “spirituale”. Attualmente vive in America, nel North Carolina, dopo un periodo passato a New York.
Nico è il tuo primo romanzo, dall’omonima protagonista. Veste nero-esistenzialista e Dr.Martins ai piedi, ascolta i Pink Floyd, David Bowie, i Nirvana. Fugge letteralmente da una relazione tossica, e sogna la Scozia. Chi è Nico per te e cosa volevi che fosse per i lettori?
“Per me Nico è una ragazza ribelle alle prese con i suoi limiti e con i suoi sogni, che in qualche modo ha a cuore di realizzare. È una ribelle perché rifiuta di stare alle aspettative di un contesto da “brava ragazza”. A lei piacciono le persone autentiche e, rimanendo fedele a se stessa, quelle frequenta. Per i lettori non volevo altro che presentare una persona con i suoi più e i suoi meno. Volevo che fosse umana. Era mia intenzione non descrivere una bambola lobotomizzata che mantiene una facciata di vita perfetta nell’Italia perbenista.”
Nel libro parli senza mezzi termini di Love Addiction. É come se nel linguaggio italiano contemporaneo non disponessimo di termini sufficienti per descrivere determinati fenomeni. Pensiamo al love bombing, al ghosting, al gaslighting. Dai al lettore vari indizi fino ad arrivare un’inevitabile e violenta rottura. Parli anche di droghe, ma la dipendenza affettiva sembra prevalere su tutte.
“Nel romanzo tutti i personaggi sono alle prese con qualche genere di dipendenza. La love addiction ha più spazio perché è alla base della pista narrativa principale, quella fra Nico e Denis (il suo ragazzo). Sì, in Italia tutti ci si lamenta spesso dell’uso e abuso di anglicismi, ma francamente io non ho memoria di una terminologia italiana per definire gli abusi emotivi. Ad esempio, quando andavo a scuola il termine bullismo non esisteva. Perciò compiere degli abusi verso un compagno in difficoltà risultava legittimato dall’assenza di una terminologia che definisse l’abuso. O il body shaming, il gaslighting. Mancando il termine, manca anche il concetto, non ci si fa caso e si normalizza l’atto.”
La tua predilezione per i monologhi e le digressioni spesso crude, amare e scanzonate, ricordano autori americani come Miller e il vecchio Bukowski, che citi così: gli piacevano gli uomini disperati, con i denti rotti, il cervello a pezzi e una vita che fa schifo. Parli con fluidità e naturalezza di dipendenza da eroina e disturbi post traumatici da bad trip. Hai una preferenza per le vite al margine.
“Henry Miller, Bukowski, John Fante e altri sono miei mostri sacri. Un altro è Irvine Welsh, scozzese ma pur sempre letteratura anglofona, perché nei suoi romanzi parla di gente della depressa provincia scozzese, con problematiche simili alle nostre. Trainspotting per me è stato un cult perché, pur essendo estremo, era un romanzo di denuncia. Io volevo parlare dei beautiful losers. Non mi hanno mai convinto troppo gli yuppies, la gente con molto ego, quelli che si ritengono ‘di successo’, questa ‘antropologia del vincente’, per citare Rosaria Gasparro.

Ai bravi ragazzi rasati e coi colletti inamidati preferisco appunto, come Bukowski, ‘gli uomini disperati, coi denti rotti, il cervello a pezzi e una vita che fa schifo’. Mi piace la gente con dei conflitti irrisolti. Come se li gestiscono? Questo è alla base del raccontare storie. Per questo amo molto il realismo crudo di Bukowski & company. In questo senso la letteratura americana mi era entrata nelle ossa, già da più giovane. In Italia c’è sempre stata più reticenza a parlare di argomenti scomodi.”
Attualmente vivi in America. Dalla tua biografia, vivi sulla East Coast e studi esoterismo gnostico. Da quanto vivi in America e perché?
“Vivo in America da cinque anni. Me ne sono andata dall’Italia veramente stufa di lottare contro i mulini a vento e non me ne sono mai pentita. L’Italia come la ricordo io è precisamente il posto di Tutta la Vita Davanti di Virzì. Ricordo come particolarmente avvilente l’anno in cui mi sono diplomata alla Scuola Holden, il 2008, in piena crisi. Non si trovava lavoro neanche come cameriera. I lavori creativi sono sottopagati o non sono pagati affatto o non esistono. É il posto dove fanno credere ai giovani che non valgono niente, piuttosto che ammettere che nessuno ha il coraggio di investire e rischiare.”
Trovate Women Plot su:
Instagram: @womenplot