«Chi nasce uomo comanda, chi nasce donna obbedisce. Non c’è spazio per la ribellione. Colei che alza la testa, muore. […] Sta accadendo di nuovo tra le genti di questa terra, una volta fiorente, poi insanguinata dalla guerra che non si è mai spenta, ora agonizzante nella miseria, travolta anche da una pestilenza che pare il male minore se paragonata all’odio dilagato negli animi. Ci si attende altro sangue, sono in agguato nuovi tradimenti, ennesime falsità saranno messe nero su bianco con un inchiostro che nell’arco di una notte si cancellerà lasciando le pagine di nuovo bianche». – Dal prologo del romanzo La principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli
L’Afghanistan e il coraggio delle donne: domenica 3 ottobre Tiziana Ferrario ha presentato il suo nuovo romanzo, La principessa afghana e il giardino delle giovani ribelli, in anteprima nazionale alla Fiera delle parole, festival letterario padovano.
Ferrario sceglie il romanzo e non il saggio, genere già affrontato con Il vento di Kabul nel 2006 – «Mi sento un po’ sotto esame, come raramente mi succede», dice, «perché io non avevo mai scritto romanzi e ho sempre fatto la giornalista. La televisione ti porta ad avere un linguaggio sempre più scarno perché hai comunque le immagini che ti aiutano nel racconto. Però quando mesi fa è arrivato l’annuncio che gli americani avevano deciso di andare via dall’Afghanistan, la loro guerra più lunga, e con loro c’eravamo anche noi, una guerra persa, il mio pensiero è andato subito alle donne, quelle donne che avevo incontrato» – per uno sguardo intimo e personale; narra con garbo la storia di un paese ferito, ora emirato islamico dopo la caduta di Kabul e solo nel panorama internazionale dopo i quasi vent’anni di occupazione statunitense. Che ne sarà delle donne, una volta lapidate per adulterio negli stadi dai talebani? L’Afghanistan è ultimo, centocinquantaseiesimo paese in classifica, nel Global Gender Gap Report 2021, che misura il divario tra sessi nel mondo.

Molti sono gli interrogativi affrontati durante la presentazione. L’Afghanistan, potenzialmente in posizione strategica per una nuova Via della Seta, è nel mirino di una Cina ambigua che ora sembra aver occupato l’ex base militare americana di Bagram. Quali saranno le mosse degli stati europei e degli States? E come cambieranno gli equilibri internazionali?

Dopo il ritiro delle truppe, gli Stati Uniti ora ospitano circa centomila afghani. Se il futuro dei rifugiati, ancora nelle basi militari – soltanto Fort McCoy, Wisconsin dà asilo a ottomila – è incerto, ciò che attende chi è rimasto in patria è tutt’altro che roseo. Scuole che bruciano, giornaliste assassinate: la crisi umanitaria imminente vede protagoniste mute le donne, ridotte al silenzio: di loro, di quel che sta accadendo, filtrano poche notizie. Protestare è morire.
«Ho voluto parlare di una donna che ho conosciuto per caso un giorno a Roma, alla Farnesina. C’erano ancora i talebani nel paese, era intorno al 2000 […]. Io sono andata un attimo a chiacchierare con lei perché mi aveva incuriosito. Le ho detto ‘Sai, sto per partire per l’Afghanistan. L’Italia vuole provarci, c’è una crisi umanitaria terribile, vuole provare a mandare degli aiuti. Vuole farlo partendo insieme a Gino Strada, che sta costruendo un ospedale a Kabul’. Lei rimase molto colpita. Non metteva piede nel suo paese da anni perché c’era stato il colpo di stato e la famiglia reale era stata cacciata via. E quindi mi dice, ‘Se torni in Afghanistan chiamami, mi devi dire che cosa vedi, mi devi raccontare’. E lì comincia il nostro incontro», racconta Ferrario al pubblico di Padova. Era Homaira, principessa nipote dell’ultimo re d’Afghanistan, Zahir Shah, in esilio a Roma.
La giornalista sceglie dunque la sua voce come simbolo e ci porta per mano tra profumi e sapori di una volta. Il tè al cardamomo, caro ricordo dell’autrice, era ed è ancora offerto agli ospiti in ogni casa, anche le più povere.

«Anche le mie ospiti si aprono e mi raccontano pezzi delle loro vite, i loro sogni diventati realtà. Sono donne di tutte le età, alcune giovani che non hanno visto gli orrori del passato, con grandi occhi verdi pieni di curiosità e lunghissimi capelli neri che incorniciano volti dalla pelle ambrata. Altre hanno conosciuto le pene della guerra e il peso della segregazione e non hanno intenzione di farsi imprigionare di nuovo. Tutte paiono animate da una gran voglia di fare, sono forti e fiduciose, ma lo so bene che nei loro villaggi camminano su una corda sospesa nel vuoto. È una sfida continua tra quelle montagne, se si nasce donne e nelle case sbagliate.»
E le donne del romanzo sono molte, in ruoli chiave e simbolici: la maestra Mariam, insegnante proprio «come avevo desiderato da bambina», la sminatrice Nabila, che sceglie questa missione pericolosissima per salvare i bambini, e le sue figlie, dalle insidie dei campi minati.
Un romanzo corale imprescindibile per il lettore occidentale, preziosa testimonianza della figura femminile di un Afghanistan tribale.