Neoliberismo come origini di tutti i mali. Colin Crouch, l’autore di Combattere la postdemocrazia (Laterza 2020) non ha dubbi: dal populismo demagogico alle diseguaglianze, dalla crisi delle democrazie occidentali alla quella finanziaria del 2008, fino a quella del debito in Europa e alla perdita delle identità politiche, il grosso della colpa sta nella “deriva neoliberista”. Crouch spiega che la distanza tra il mondo della politica e la “vita normale” del cittadino normale è aumentata.

Le cosiddette élite sono diventate autoreferenziali, il che è stato percepito in maniera ancora più negativa nei momenti di recente crisi – GFC e crisi dell’Euro. Con postdemocrazia Crouch intende una «stanchezza per gli obblighi della cittadinanza politica e, insieme, una compiaciuta certezza che la democrazia sia in mani sicure e non abbia bisogno di essere esercitata.» Da Peter Mair a David Runciman, da Steven Levitsky a Daniel Ziblatt, in molti hanno messo sul lettino dello psichiatra la complessa matassa della democrazia in Occidente.
«L’idea di democrazia liberale è collegata a quella di rappresentanza, ma i due concetti non sono affatto identici. Il liberalismo, inteso nel senso più generale, implica l’accettazione dell’idea che la conoscenza umana sia fondamentalmente incerta e che qualsiasi credenza, per quanto salda, possa sempre rivelarsi falsa». La democrazia liberale prevede una cittadinanza con suffragio universale e la presenza di istituzioni forti che tutelino l’incertezza; con il potere giudiziario al riparo da interferenze politiche e un governo subordinato alla legge. «Storicamente, a opporsi alla democrazia liberale sono state prima la tradizionale destra conservatrice, poi la destra autoritaria fascista», ricorda l’autore, ma nel ventesimo secolo, la sfida alla liberaldemocrazia «è venuta da sinistra, dal socialismo di Stato e dal comunismo». Secondo Crouch oggi la globalizzazione «ha indebolito la democrazia, in primo luogo, riducendo le possibilità d’intervento dei governi nazionali. Se le principali decisioni che incidono sull’economia vengono prese a livello globale […] la maggior parte dell’attività democratica finisce inevitabilmente per apparire superflua».

E appare superflua anche per l’incremento delle cosiddette diseguaglianze. L’autore dimentica di dire che a livello globale esse sono diminuite e si rifà a Thomas Piketty, imputando le diseguaglianze a livello nazionale al neoliberismo. Nell’era del protezionismo, dell’astio per la società aperta, la tolleranza, le migrazioni, il neoliberismo – eccolo! – secondo l’autore è oggi l’idea economica dominante che ha indebolito gli stati-nazione, creando praterie non solo per la perdita d’importanza della democrazia, ma anche l’incremento del consenso dei partiti anti-immigrazione. I movimenti xenofobi sono diventati «i principali interpreti non solo della paura e dell’odio nei confronti degli stranieri, ma anche di un più generale conservatorismo sociale, pessimista e nostalgico, che comprende anche il risentimento per le recenti conquiste delle donne.» E la politica oggi? La politica è in crisi e le classi politiche «hanno smesso di farsi portavoce di varie categorie sociali sulla base di un contatto diretto con i concittadini, e hanno finito per creare una classe politica a parte, che si avvale di dati di marketing sui clienti-elettori, raccolti con tecniche professionali.»

Il marketing applicato alla politica non nasce certo oggi e neppure “per via” del neoliberismo: esso semplifica i problemi politici e impoverisce la politica. Crouch analizza il rapporto democrazia e (neo)liberismo. «La teoria economica neoclassica si fonda su una visione del mercato come terreno d’incontro tra un gran numero di produttori e di consumatori. In questa visione, il concetto di potere scompare: per questo il concetto di mercato puro corre parallelo all’idea di democrazia formale». Crouch ricorda i rapporti tra Friedrich von Hayek con la democrazia e divide dunque il neoliberismo in due filoni: «quello dei market neoliberals, che si concentrano sul buon funzionamento dei mercati, e quello dei corporate neoliberals, cui interessa soprattutto difendere il ruolo delle grandi imprese oligopolistiche.» Le alternative di Crouch al “neoliberismo imperante”? Sostanzialmente, l’intervento dello Stato. «Dove la concorrenza di mercato non è in grado di assicurare qualità e sicurezza, l’unica soluzione è regolamentare». Secondo l’autore, in questo modo si eviterebbero casi alla Gerhard Schröder (nel CdA di Gazprom) o Dick Cheney (forniture Halliburton in Iraq).
«La democrazia può produrre una massa di interventi regolatori per tutelare interessi diversi dal mercato e dalle imprese. Il regime preferito dai capitalisti è in realtà la postdemocrazia, in cui sopravvivono tutte le forme democratiche», spiega Crouch. Circa la deregulation, Crouch parte dagli anni Ottanta e l’aumento della centralità dei mercati e delle nuove operazioni dei titoli rivenduti subito per guadagnare in fretta. Il fenomeno della finanziarizzazione di alcune imprese è ascrivibile al neoliberismo. Crouch non dimentica le vicende Worldcom ed Enron, nonché la malagestione della Arthur Andersen – che chiuse gli occhi su certe irregolarità della seconda, per non perdere le consulenze. Scandali di questo genere si sono poi sommati al fenomeno dei subprime– prodotto della cattiva scuola neoliberista, ovviamente. «La crisi è stata provocata, almeno in parte, dalla deregolamentazione e ha a sua volta creato diffusi problemi alla democrazia», taglia corto Crouch, che omette di ricordare che viviamo in un mondo in cui i più chiedono a gran voce “più Stato”.
Dalla GFC «i servizi pubblici hanno subìto quasi ovunque danni a lungo termine. Gli standard di vita hanno fatto un grosso passo indietro; per la prima volta dopo tanti anni, la gente non ha più davanti a sé la prospettiva di un aumento graduale del reddito.» Crouch segue il template antiliberista: ascrive tutta la colpa “alle banche” – alcune delle quali hanno certamente colpe – e assume toni populisti nell’attaccarne la malagestione. Non stupisce che il risultato di questa retorica sia stata l’incremento dei populismi, nonché l’astio generalizzato nei confronti delle “competenze”, degli “esperti”, delle “élite”. Volgendo l’attenzione alla crisi del debito sovrano in Europa, Crouch sembra difendere i paesi debitori durante la crisi della moneta. Lo schieramento da parte dei c.d. paesi cicala, i PIIGS, è tipico di chi assume una postura ideologica antiliberista, anti-austerità. Alle “banche cattive” si sommano, nell’universo di Crouch, anche la “cattiva Germania” e le “regole liberiste tedesche” imposte agli altri paesi europei – si ricordi che la Germania è la culla del welfare e della socialdemocrazia, altro che neoliberismo.
Crouch ricorda che con l’odiatissima moneta unica avrebbe rafforzato Berlino e penalizzato Roma, Madrid e Atene, i paesi del Sud Europa, abituati alle svalutazioni competitive per fare un boost al loro export in periodi di bilancia commerciale negativa. Un giochino non più praticabile con l’Euro. A livello sociale, l’intrecciarsi di crisi economica e crisi dell’Euro nonché alla percezione dell’aumento delle diseguaglianze, le migrazioni e la perdita d’identità politica, hanno provocato ampi scontenti. A beneficiarne, i populismi. Quelli conservatori fanno uso della nostalgia come rifugio rispetto ai problemi del presente. La colpa, neanche a dirlo, secondo Crouch è del neoliberismo, l’unico responsabile del declino dell’industria manifatturiera, dunque responsabile del rancore di alcune classi sociali nei confronti di altri. Giocare su questo rancore è poi una delle attività di imprenditori della paura che cavalcano lo scontento e infiammano l’opinione pubblica su certe tematiche, mettendo a rischio la democrazia.

Non è un caso che Crouch, introducendo i populisti dell’oggi, porti indietro il lettore a Benito Mussolini – fautore di un futurismo avanguardistico neoclassico – dunque a Adolf Hitler – a favore di una nostalgia da Sacro Romano Impero neogotico – passando per Francisco Franco e António Salazar (conservatori militaristici). Crouch spiega che il “pessimismo nostalgico” tipico di questi nazionalismi – che, lo si ricordi, in termini di dottrina economica hanno seguito il corporativismo socialista – e dei populismi moderni porta al «desiderio di uccidere», cioè eliminare gli avversari attraverso il «culto della violenza». Nell’universo populista descritto da Crouch finiscono il PiS polacco, l’ungherese Jobbik, i gilet jaunes, i “fine people” (copyright Donald Trump) e i neonazi di Charlottesville nel 2017, fino al Bolsonarismo e all’alt right tedesca. Se gli studi sulla crisi della democrazia liberale sono incrementati negli ultimi anni, analogo è stato il destino di quelli sul populismo: Yves Mény, Yves Surel, Jan-Werner Müller, Yascha Mounk, Nadia Urbinati, Cas Mudde hanno spiegato come il leader politico intenda impersonare il popolo a fronte di una divisione sociale tra élite corrotte e masse pure, in un grido antistituzionale, antiglobalista, antidemocratico.
Ogni populismo ha i suoi contenuti precisi: quello trumpista si collega alla questione razziale, all’ostilità per il sapere scientifico, alla strumentalizzazione della Bibbia. Attacchi agli immigrati ed esaltazione dell’identità nazionale appartengono al conservatorismo di Viktor Orbán, mentre l’attacco della magistratura e l’esaltazione del cattolicesimo contadino è tipico di Jarosław Kaczyński. Il populismo tocca anche l’Austria (FPÖ), della Svizzera (UDC), dell’Italia (Lega, ex Nord). I partiti citati si basano sulla crisi delle identità sociali e l’insoddisfazione della classe media scattate dall’aumento di ampiezza della globalizzazione. Ancora una volta, Crouch trova una spiegazione all’incremento del populismo. Si tratta del neoliberismo, faro dei partiti di centrodestra. Che d’altra parte, «hanno alzato bandiera bianca di fronte alle idee razionaliste, secolariste e scientifiche del liberalismo, che era stato il loro principale avversario per tutto l’Ottocento. Ma ciò non ha penalizzato i partiti conservatori, né ha avvantaggiato le forze liberali: semmai, è accaduto l’opposto.»

Secondo Crouch, il neoliberismo ha «dominato la vita pubblica» e «ha indebolito la democrazia». E «una democrazia forte comporta due requisiti: la possibilità per i cittadini di rivolgere alle richieste élites scomode, e l’esistenza di istituzioni esterne alla democrazia che proteggano […] il funzionamento della democrazia stessa.» Inoltre, «la salute della democrazia non può essere garantita solo dai partiti, dal governo e dalle altre istituzioni politiche ma dipende, in ultima analisi, dalla partecipazione dei cittadini».
Il neoliberismo è il patrigno eterno per Crouch: ha causato l’incremento del populismo, la crisi economico-finanziaria, quella dell’Euro, quella delle identità politiche del Novecento, quella della globalizzazione, quella delle democrazie. Crouch accomuna il neoliberismo alla destra xenofoba; una contraddizione in termini. Trovare in maniera ossessiva un colpevole unico che spieghi fenomeni sociali ed economici complessi – il neoliberismo per Coruch – non è un metodo democratico di discussione; è anzi populista e demagogico.