Per “Wall Street” attende ben quattro mesi. Si apposta cento volte vicino al cartellone pubblicitario dell’uomo che tira una fune, una media di tre volte la settimana: uno scatto, sembra buono, sembra finalmente riuscito… e invece no. La fotografia è buona, ma non “dice” quello che lui chiede. Occorre pazienza certosina, caparbietà. Alla fine, ecco, scatta la scintilla, è quello che cerca, quello che vuole.
Altra, opposta, la storia di “Sephora, Times Square”. Nessun appostamento, in quel caso, piuttosto tempismo, prontezza di riflessi. Nulla di programmato. Passeggia, e l’occhio cade su una scena curiosa, si avvicina e scatta da ogni angolazione possibile, prima che la cliente si allontani.

Curioso personaggio Jonathan Higbee. Racconta che il suo amore per la fotografia inizia per caso (ma il caso, le coincidenze quasi mai sono “casi”, “coincidenze”); e che nel mondo delle immagini ci è come inciampato dentro: “A otto anni ho ricevuto la mia prima Polaroid. L’ho portata ovunque. Nel 2009 a New York ho cominciato a sperimentare la street photography, senza sapere esattamente che cosa significasse”. Lasciato il nativo Missouri, approdato a New York, frequenta artisti di strada, diventano le sue guide nella esplorazione della città: “Ero completamente sopraffatto, sovrastimolato e ansioso. Ho adorato ogni attimo, usando la mia macchina fotografica per distillare il caos e la natura travolgente della metropoli“.

È così che nasce “Coincidences”. Il libro ha due anni, ma nulla ha perso per quel che riguarda la freschezza e l’attualità di quelle “coincidenze”, quei “casi”, come quello d’inizio: “Se” non gli avessero regalato la Polaroid…?
A sfogliare quel libro si resta piacevolmente sorpresi: ogni fotografia esprime “visione”, una storia, una padronanza di linguaggio visivo; suscita emozioni e reazioni: un sorriso, una piccola smorfia, una perplessità. La vita di tutti i giorni scorre davanti, condensata in uno zaino, nei graffiti su una saracinesca, i palloncini beffardi sul faccione di Michey Mouse. È un’innata capacità di aprirsi al mondo, lasciare che i “casi”, o meglio le storie fluiscano e si incontrino tra di loro, in base a logiche imperscrutabili: “Non coreografo le scene in alcun modo, ma uso la post-produzione. So che questo è un po’ eterodosso, specialmente nella comunità di strada, ma io non ho problemi”.

Ogni immagine cattura l’arguzia, la gioia e il surrealismo della vita quotidiana di New York. Si indovina che è la sintesi di un lavoro frutto di non comune pazienza, attenzione, perseveranza. Una sorta di “magia”, come il turista con la classica borsa “I love NY gifts”, e macchina fotografica: nel momento dello scatto sembra “emanare” un triangolo celeste dove è compresa una ragazza nell’atto di uscirne. Oppure il fantastico uomo con zainetto zampillante un rivolo giallo.
Chissà in tempi di pandemia quali “coincidences” è stato capace di cogliere Higbee; l’augurio è che, per saperlo, non ci faccia attendere troppo.