Abbandonare un gatto, pubblicato in Italia da Einaudi, è l’ultimo libro di Murakami Haruki, lo scrittore giapponese creatore di storie e di mondi in cui ogni lettore ha vissuto come sospeso. Ma qui, per la prima volta, Murakami ricostruisce il suo di mondo, la sua storia personale, le sue origini, partendo da un ricordo che potrebbe sembrare insignificante ma che ha significato per lui crescita, conoscenza, vicinanza ad un padre affettivamente distante.

“Riesco a pensare solo scrivendo, sono negato per la teorizzazione astratta, ho bisogno di rivangare la memoria, riconsiderare il passato e trasformarlo in parole che si vedano e in frasi che si possano leggere”.
Scrive così Murakami Haruki, spiegando quello che in fondo caratterizza ogni scrittore. Nonostante la vita di chi scrive, infatti, sia fatta delle stesse cose della vita di chi non scrive, “lo scrittore” solo mettendo ordine nelle parole riesce a metterlo anche nella vita. Decodifica così gli eventi, quello che ha voluto vivere e quello che gli è capitato di vivere. E solo dopo riesce ad andare avanti, a capire, ad accettare.
Questo fa Murakami, dopo anni di silenzio con se stesso, di lontananza dal padre, quel padre con il quale si riconcilia solo poco prima della sua morte. Torna indietro; rievoca la sua vita di figlio qualunque di un uomo qualunque. Un uomo introverso suo padre, irrimediabilmente segnato da quell’esperienza terribile che è la guerra. Esperienza dalla quale esce devastato, diverso, un uomo che ha dovuto uccidere solo per sottostare ad un rito di iniziazione; come racconta un giorno al figlio senza mai ammetterlo o entrare nello specifico.

Murakami racconta di un rapporto difficile, di un conflitto generazionale che seppur per ragioni diverse diventa uguale in tutte le culture, in tutti i contesti storici. Ricorda non senza rimpianto, quel desiderio di essere se stesso, che lo ha per molti anni allontanato da un padre del quale aveva, così facendo, disatteso tutte le aspettative. Ma l’amore resta intatto anche se ce ne accorgiamo solo molto tempo dopo, quando diventa troppo tardi. Il dolore della perdita è forte, incommensurabile, nonostante la distanza, il non essersi vissuti. Ed è proprio per cercare di superarlo, che lo si affronta come fa Murakami, andando alle radici di quel rapporto, di quelle vite, di quel retroterra diverso che ci rende incomprensibili l’uno all’altro, ma sempre legati a doppio filo, complementari. Sempre l’uno la continuazione dell’altro.
“La storia non appartiene al passato. È qualcosa che fluisce nella coscienza umana, o forse nell’inconscio, è una corrente di sangue vivo e caldo che volenti o nolenti, ci trasmettiamo da una generazione all’altra. In questo senso ciò che ho scritto qui è una vicenda individuale ma allo stesso tempo un tassello della grande storia che ha formato il mondo nel quale viviamo. Perché la storia è questo: il trasferimento di un’eredità”.
Murakami Haruki, come lui stesso scrive, con questo racconto, illustrato da Emiliano Ponzi, non vuole trasmettere nessun messaggio, ma solo testimoniare quello che è un frammento anonimo della storia. Ognuno di noi è una delle innumerevoli gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura. Una goccia che ha una sua individualità ma è sostituibile; anche se quella goccia ha i suoi pensieri, la sua storia e il dovere di continuarla. Murakami è una di quelle gocce che ha già lasciato un segno nella storia della letteratura mondiale, e in quel segno lui ha voluto imprimere suo padre, l’uomo da cui è nato per una serie di circostanze casuali che tutti erroneamente chiamiamo destino. Si è tenuto quel dolore, quella storia in gola per anni, come una spina, racconta, finchè non si è ricordato di quel giorno in cui bambino, insieme a suo padre era partito in bicicletta diretto alla spiaggia, per abbandonare un gatto.