Cita quasi a memoria “Mafia di ieri, mafia di oggi”, un saggio degli storici Salvatore Lupo e Rosario Mangiameli, il generale Giuseppe Governale, già comandante dei carabinieri del ROS, da tre anni direttore della Direzione Investigativa Antimafia. Il passaggio dove si racconta della carriera di un capo storico della Cosa Nostra, Calogero Vizzini; tipo dimesso, a vederlo non gli avresti dato due soldi. Eppure, è il mammasantissima in Sicilia e anche fuori dall’isola: la sua parola, ancora prima di aprir bocca, è legge indiscussa. “Uomo rispettato e sotto certi punti di vista rispettabile”, lo descrive Indro Montanelli in un articolo sul “Corriere della Sera” del novembre 1957: “nella mafia è stato ciò che Ford fu nell’industria automobilistica e Rockfeller in quella del petrolio”.
Vive a Villalba, vicino Caltanissetta, Vizzini. D’abitudine, il pomeriggio, si siede al circolo, c’è una poltrona a lui riservata: e inizia la “processione” sterminata di quanti gli rendono omaggio, baciano la mano, fanno pratica visiva di sottomissione. Da lontano un giovane Sciascia osserva. Diventerà il modello del capomafia Mariano Arena ne “Il giorno della civetta”.
Una Cosa Nostra ancora agricola, di campagna. Qui, la citazione del generale Governale, spiazzante; ti chiede: “Cosa ci fa, nel 1922, Vizzini a Londra, così lontano da Villalba, assieme a finanzieri del calibro di Guido Donegani e Guido Jung, il primo creatore della Montecatini, l’altro fondatore dell’IRI e poi ministro delle finanze di Mussolini e Badoglio?”.
Già: cosa ci fa? Raccontano Lupo e Mangiameli:
“La carriera di Vizzini si gioca in un quadro dinamico che non conferma l’immagine oleografica della mafia tradizionale, innanzitutto perché quella del latifondo era a suo modo una società dinamica, ben collegata alla grande storia e in questo caso alla mobilitazione politica popolare; poi perché la dimensione latifondistica e comunitaria non esauriva l’ambito di azione del celebre capo mafia, collocato all’incrocio tra gli interessi fondiari e quelli minerari. Vizzini appare un personaggio di ben diversa complessità, presente a Londra nell’ambito delle trattative per la costruzione di un cartello internazionale dello zolfo…è lui uno di quei «maffiosi ignoranti delle province di Girgenti e di Caltanissetta» accusati dall’altro finanziere tedesco-catanese Carlo Sarauw di essere i responsabili dell’arretratezza cronica dell’industria estrattiva. La «nuova mafia» dell’interno nel primo dopoguerra non dava la scalata alle grandi fortune, come quella del periodo postunitario, ma restava ad un livello sociale ed economico intermedio, compatibile con il quadro di mobilitazione collettiva che essa utilizzava e strumentalizzava…”.

Coppola, lupara, vestito di fustagno, ma non solo, evidentemente. Sotto quella “divisa” già c’è altro. Che si ignora, non appare. Ecco perché diventa essenziale conoscere, studiare, capire.
Un potente contributo alla conoscenza Governale e i suoi collaboratori lo forniscono con una pubblicazione di “La lotta alla mafia dal questore Sangiorgi (1898) al colonnello Dalla Chiesa (1971)”: tre grossi volumi, per il momento tiratura limitata, per “addetti ai lavori”. Sarebbe opportuno che le scuole di addestramento dei futuri investigatori (ma anche i magistrati che si occupano di questi fenomeni, e perché no: almeno nelle biblioteche pubbliche) siano dotate di questa pubblicazione. Sarebbe un prezioso “investimento” se i competenti ministeri decidessero di pubblicarli in più vasta tiratura.
Il direttore della DIA ha recuperato il cosiddetto “Rapporto Sangiorgi”: sono i resoconti del questore di Palermo Ermanno Sangiorgi inviati al Procuratore del Regno: trentun rapporti (485 pagine manoscritte), stesi tra il novembre 1898 e il febbraio 1900. Lettura illuminante e sconcertante insieme. Sembra di leggere i verbali delle deposizioni di Tommaso Buscetta e degli altri collaboratori di giustizia. C’è già tutto, in quelle pagine: il quadro completo della mafia siciliana, un eccezionale documento ufficiale che inquadra il fenomeno della Cosa Nostra: organizzazione fondata e cementata su un giuramento, la cui attività e scopo è l’illecito arricchimento. Viene descritta al dettaglio l’organizzazione; la divisione dei territori; perfino i nomi dei mafiosi e le loro famiglie: non ci fosse la data del secolo scorso, diresti che si parla di oggi… Scorro l’elenco dei mafiosi citati: nomi, i cognomi sono sempre gli stessi, si susseguono, vere e proprie dinastie. Conferma Governale: «I cognomi sono sempre gli stessi, sono radicati nel territorio, lo gestiscono, fanno ricorso a volte a una sorta di welfare alternativo».
Già cent’anni fa Sangiorgi, con acribia descrive struttura e organizzazione: i «mandamenti», le cosche, una radiografia completa. I collaboratori di giustizia, penalmente parlando sono stati utili; dal punto di vista della conoscenza del fenomeno, bastava leggere le carte di quel funzionario coscienzioso e davvero «fedele servitore dello Stato».
L’altro prezioso documento è il “Rapporto dei 114”, stilato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando, nel ’1971, è al comando della legione dei carabinieri di Palermo; rapporto che reca anche la firma del fior fiore degli investigatori dell’epoca, a cominciare dal vicequestore Boris Giuliano, e del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo (impegno pagato con la vita: Russo il 20 agosto 1977; Giuliano il 21 luglio 1979; Dalla Chiesa il 3 settembre 1982).
Quelle quasi 500 pagine raccontano e documentano oltre cento anni di storia. Già un’altra volta un carabiniere, Renato Candida, comandante del gruppo carabinieri di Agrigento, nel 1956, aveva affrontato il problema della mafia nella provincia sulla sua giurisdizione, ricavandone un volume: “Questa mafia”. Libro che colpisce Sciascia: fa in modo che sia pubblicato; e su Candida modella il famoso capitano Bellodi de “Il giorno della civetta”.

Dai rapporti Sangiorgi-Dalla Chiesa la conferma di un’altra verità: mai esistita una Cosa Nostra simile ai Beati Paoli raccontati da Luigi Natoli, cavalleresca e con codici d’onore. Proprio no: ha sempre ucciso chiunque le si frappone, poco importa se donna, anziano, bambino. Una violenza spietata per il potere e per il denaro.
Dalle campagne, al tempo dei gabellotti e dei feudi, alla conquista delle città; dagli appalti pubblici al traffico e la produzione della droga; la scalata alle Borse e la finanza… E ora? C’è un detto che ben riassume una tattica di sempre: “calati juncu ca passa la china”. Dopo la sanguinosa stagione dei Corleonesi segnata da delitti eccellenti e stragi, e le repressioni poliziesche che sono seguite, usciti di scena i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, Cosa Nostra si è “calata”, ma non è certo scomparsa. Opera sotto traccia, discreta.
In buona sostanza, quello che Governale vuole dire è che per contrastare davvero la Cosa Nostra e le altre forme di mafie che opprimono il nostro paese, è importante, la risposta repressiva, giudiziaria, penale; ma tutto è vano, inutile, se non c’è, parallela, un’azione di riscatto civile, sociale e culturale. Muta, si trasforma, si adegua alle situazioni; al tempo stesso rimane sempre fedele a se stessa, alla sua natura: “Cambia vestito a seconda delle stagioni, il corpo resta sempre quello”. Soprattutto, da sempre, coltiva il rapporto organico con il Potere, indifferente al suo colore. Quello che conta è l’arricchimento, il denaro, e il potere che da esso ne deriva.
Dunque, sì: il radicamento nel territorio di origine; al tempo stesso ci si ramifica e infiltra là dove si produce, dove circola ricchezza; dove si può investire, moltiplicare e riciclare, ripulendoli, “i piccioli”. E’ la metafora usata da Sciascia, quando in una sua poesia parla di una palma che ogni anno si sposta di cinquecento metri, verso il Nord. Una palma mafiosa, che troviamo nelle regioni del Nord Italia, e ha già varcato da tempo Chiasso.
L’episodio londinese di Vizzini in compagnia di Donegani e Jung la dice lunga.
La lotta alla mafia dal questore Sangiorgi (1898) al colonnello Dalla Chiesa (1971); a cura del direttore della DIA, generale Giuseppe Governale; pagg. 485; S.I.P.