Lo dovevamo leggere tutti naturalmente, perché, in quegli anni, chi non lo leggeva era assolutamente e imprescindibilmente out.
“’O bischero, non mi dire che tu non l’hai ancora divorato il libercolo stradale?”, gridava il direttore della libreria Feltrinelli di via del Babuino, quello con i baffi a manubrio e il fisico possente da lottatore di sumo. In realtà io non l’avevo ancora letto e mi vergognavo un po’ perché tutti i miei amici ne parlavano in continuazione.
“E’ fantastico. E’ uno sballo. E’ uno sballo fantastico”, dicevano e naturalmente mi era venuta una grande curiosità. Così ero andato alla chetichella a cercarmelo in quella libreria di riferimento che aveva aperto da pochi anni. Eravamo nel ‘67, la Feltrinelli in questione aveva appena compiuto tre anni e io invece di anni ne avevo sedici, ero magro come un chiodo e glabro come uno appena depilato da un tosatore di pecore.
«Quando mi spunteranno i baffi?», chiedevo sempre.
«Mai», rispondeva il mio barbiere Pasqualino, dopo avermi dato una rapida occhiata.
E va bene. I baffi non mi sarebbero venuti, però dovevo dimostrare di essere grande e così comprai quel libro. Prima di uscire il direttore toscano mi avvicinò.
«Tieni, prima di iniziare con la lettura, prendi questo, così capisci meglio», mi disse, allungandomi un trafiletto di giornale in cui si parlava del libro in questione.
Andai a piazza di Spagna, mi sedetti sui gradini della scalinata e iniziai a leggere.
L’articolo diceva che l’autore aveva scritto il libro in sole tre settimane usando un rotolo lungo trenta metri di carta da tappezzeria. Carta da tappezzeria? Ma chi era ‘sto matto? Il tipo di stile usato era il cosiddetto “flusso di coscienza”, termine coniato dai critici per l’occasione, nel quale non c’è quasi mai punteggiatura ma invece un insieme di frasi anche ortograficamente scorrette e malandate. Non è importante la forma, ma la sostanza, questo diceva l’articolo, più o meno. Per sapere che cos’era la sostanza in questione, iniziai così a leggere le prime righe.
“Dopo una dozzina di passi ci girammo, perché l’amore è un duello, e ci guardammo per l’ultima volta.”
Mi piacque molto questo incipit. Era sicuramente nuovo, rispetto a tutti gli altri incipit che avevo letto finora. E il fatto che l’amore fosse descritto come un duello e non come una cosa romantica e gentile, come avevano fatto finora gli scrittori, mi incuriosiva ancora di più. Continuai così a passo di carica, pagina dopo pagina, cavalcando il testo così come l’autore cavalcava la strada che lo portava a zonzo su e giù per gli Stati Uniti d’America. Già, l’America, quella che noi ragazzetti degli anni ’60 consideravamo un po’ come il nostro mito. La terra di John Kennedy e di Martin Luther King, di Elvis Presley e dei Beach Boys, degli hamburger e della Coca Cola, per non parlare di Hollywood, di Disneyland e di Popeye. Insomma, l’America, punto e basta.
Ma l’autore in questione, invece, stava dandomi di quel paese idolatrato, tutt’altra versione, una versione poco edulcorata e osannante. In quelle pagine si parlava di libertà assoluta, di allucinogeni, di alcool bevuto a litri e della ricerca continua di nuove esperienze e sensazioni, sempre più al limite. I due protagonisti del viaggio durato anni si chiamano Sal Paradise che è in fondo l’autore stesso e Dean Moriarty che non è l’antagonista di Sherlock Holmes, visto che porta lo stesso cognome, ma invece un amico che spunta nella vita di Sal all’improvviso.
“Con l’arrivo di Dean cominciò quella parte della vita che si può chiamare la mia vita sulla strada. Prima di allora avevo spesso fantasticato di attraversare il paese, ma non ero mai partito. Dean era il compagno perfetto per mettersi sulla strada, perché c’era addirittura nato lui sulla strada, mentre i suoi genitori si trovavano a passare da Salt Lake City a bordo di una vecchia automobile…”
Il romanzo è diviso in cinque parti, a seconda degli anni e delle zone visitate dall’autore e dal suo compagno dal 1947 al 1950. Si parte da New York e si arriva infine in Messico, passando per Chicago, San Francisco e Denver, oltre ad un’infinità di altri posti. In realtà è quello un viaggio per l’America ma soprattutto un viaggio di formazione da parte dell’autore, un percorso dentro sé stesso nel cercare di comprendere davvero cosa vuole dalla vita e quali siano le proprie reali aspirazioni.
Jack Keroauc, ovvero Sal Paradise nel romanzo, scrisse “On the road” (Sulla strada) nel 1951, quando aveva da poco compiuto 29 anni, ricordando i viaggi fatti verso la fine degli anni quaranta, insieme al suo grande amico Neal Cassady, alias Dean Moriarty. L’articolo del giornale che mi aveva dato il direttore della libreria diceva che Kerouac era diventato una specie di eroe della cosiddetta Beat Generation, così era chiamata la generazione dei ragazzi americani di quegli anni, e un antesignano delle idee pacifiste e anti conformiste degli hippies e dei giovani di tutto il mondo degli anni a venire. Terminata la lettura, mi accorsi che si era fatta sera. Intorno a me, sui gradini di piazza di Spagna, erano spuntati uno dopo l’altro un sacco di ragazzi. Capelli lunghi, sigarette in bocca, chitarre. Parlavano dialetti diversi e venivano da altre regioni. Erano ragazzi in viaggio, ragazzi sulla strada, ragazzi che parlavano d’amore ed erano contrari alla guerra, alle imposizioni, alla violenza e al conformismo borghese. Erano passati esattamente vent’anni dall’inizio dei viaggi di Kerouac nel ‘47. Era dunque quella la distanza che separava la crescita del mio paese da quella degli Stati Uniti? Eravamo indietro così tanto? Vent’anni? Oppure c’era qualcosa di più che ancora non riuscivo a capire?