A quindici anni ho visto al cinema Fiamma di Roma quel bellissimo film di Visconti e non sapevo affatto che fosse stato tratto da un romanzo. E visto che siamo in tema di confessioni, ammetto anche che, nel buio della sala, all’epoca mi ero perdutamente innamorato di Claudia Cardinale, in quel lavoro davvero bellissima, soprattutto nelle scena del ballo, magicamente dipinta dal regista. Ero così infatuato che quel giorno in sala, ci restai un’eternità, perché volevo rivedermi ancora il film e, soprattutto, volevo rivedermi la meravigliosa Cardinale.
«E’ tratto da un romanzo», mi disse qualcuno.
«Ah, sì?», risposi io, un po’ sorpreso.
Così il giorno seguente andai alla libreria Feltrinelli, quella che aveva appena aperto in via del Babuino e nella quale troneggiava il gigantesco direttore fiorentino con i baffi a manubrio e l’espressione rude.
«’O che tu voi, bischero?»

«Il gattopardo», confermai, facendo finta di essere un giovane intellettuale.
«Tu non vuoi leggere davvero il libro, ’o grullo. Tu vuoi ricordarti gli occhioni scuri della Cardinale, non è vero?»
«Ma che cosa sta dicendo?», rintuzzai il colpo alla meglio, sapendo invece perfettamente che quel signore aveva proprio centrato nel segno.
Tornai a casa e iniziai a leggere anzi, per dirla tutta, mi tuffai completamente nella lettura, divorando il libro in pochissimo tempo.
Pagina dopo pagina mi accorsi ad un certo punto che quello della Cardinale rimaneva per me soltanto un flebile ricordo, tanto fui conquistato invece dalla figura del principe Fabrizio, il vero protagonista della storia. Avevo scoperto, consultando la mia storica enciclopedia per ragazzi Mondadori, che la figura del principe era tratta da quella del bisnonno dell’autore, Giulio Fabrizio Tomasi, siciliano D.O.C., grande studioso di scienze e di costumi, vissuto nell’ottocento e noto tra l’altro per aver realizzato un bellissimo osservatorio astronomico in una villa nella Piana dei Colli, a nord di Palermo. Il bisnipote Giuseppe Tomasi era invece uno studioso di letteratura e uno storico. Scrisse in libro in due anni, dal 1954 al ’56 e all’inizio lo propose a vari editori ma fu bocciato soprattutto da Elio Vittorini, all’epoca lettore per Mondadori e Einaudi. Il romanzo fu pubblicato soltanto nel 1958 dalla Feltrinelli, dopo la morte dell’autore avvenuta un anno prima. A proposito dello stesso Vittorini c’è da notare la sua estrema “lungimiranza” come talent scout, visto che, oltre al Gattopardo, bocciò anche Il dottor Zivago di Boris Pasternak e Il tamburo di latta di Gunther Grass.
Nel romanzo di Giuseppe Tomasi c’è da dire che sicuramente i fatti realmente accaduti dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia hanno per l’opera stessa una valenza importante e precisa. Ma non è sicuramente quello della storia il piano in cui lo scrittore vuole trascinare il lettore. Quello che a lui preme, in realtà è la descrizione della sicilianità e di un modo di pensare tipico di quegli uomini nobili e potenti che controllavano le terre e le proprietà da generazioni e generazioni.
Il principe Fabrizio guarda con bonario distacco gli avvenimenti contemporanei e sorride divertito al giovanile entusiasmo dell’amato nipote Tancredi e al suo interesse verso le camice rosse garibaldine tese al nuovo mondo e al collasso del vecchio regno dei Borboni. In realtà quello che il nobile sa perfettamente è che i futuri previsti cambiamenti politici sull’isola incideranno assai poco sullo spirito e, soprattutto, sulla mentalità del popolo siciliano capace sempre e comunque di adattamento a qualunque novità, nonostante l’imminente ascesa della borghesia ai danni della storica e duratura aristocrazia dei possidenti proprietari terrieri. Ma è un adattamento di facciata, un mutamento senza contenuto concreto, perché nulla potrà mai far cambiare il modo di vedere e di pensare del siciliano stesso, nulla potrà far perdere davvero gli antichi privilegi.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, allora bisogna che tutto cambi”, dice al principe Fabrizio l’arrivista nipote Tancredi, pronto a combattere per Garibaldi e tradire il re di Napoli, in una pagina del libro. Questo è il senso profondo del romanzo che definire storico sarebbe un errore, perché si tratta invece di qualcos’altro, un qualcosa che è da ricercare nel cinismo stesso dell’essere umano e nel suo intenso desiderio di mantenere sempre e comunque i punti fermi della tradizione, della storia del proprio mondo e del personalissimo credo filosofico.
Terminata la lettura, qualche giorno più tardi tornai alla libreria Feltrinelli.
«’O che tu vuoi, bischero?», mi domandò il solito direttore.
«Posso avere gli altri libri che ha scritto l’autore del Gattopardo?»
«Tu non la sei soltanto bischero, tu la sei anche ignorante e di brutto assai.»
«Perché?»
«Perché quel Tomasi lì l’era un nobile. E i nobili non si stancano mai troppo. Un libro ha scritto. Quello e basta. Per il resto aveva altro da fare.»
«E che doveva fare?»
«’O che tu non lo sai quel che fanno i ricchi nobili? Vanno a cavallo, comprano i vestiti, viaggiano per l’Europa, incontrano gente, parlano e scrivono di facezie».
Facezie? Che curiosa parola aveva tirato fuori il direttore. E io pensai che in quel libro che avevo così amato, più o meglio del film, non c’erano affatto facezie, ma descrizioni meravigliose di luoghi e, soprattutto, di persone vere. Facezie? Mi sa che il mio direttore stavolta aveva preso un bell’abbaglio, proprio come Elio Vittorini a suo tempo.