Nel marzo del 2019, Dacia Maraini è tornata in New England per incontrare gli studenti delle università americane in occasione della Festa della Donna. L’abbiamo incontrata a Lowell per parlare del suo ultimo lavoro Corpo felice. Pubblicato da Rizzoli nel novembre del 2018, il libro nasce dal ricordo della dolorosa esperienza della perdita del figlio durante la gravidanza e, attraverso un dialogo con il bambino mai nato, ripercorre la storia delle donne e della maternità. Come suggerisce anche il titolo, il corpo rimane al centro delle riflessioni dell’autrice, che condivide con il lettore un viaggio in cui le memorie del proprio passato si legano alle sue molteplici letture letterarie e filosofiche, facendo luce sulla condizione femminile e sulla misoginia che ancora dilaga nella nostra società.
D: Com’è nata l’idea per questo suo ultimo lavoro, Corpo felice?
DM: L’idea è nata da una realtà. Questo non è un romanzo, ma è un libro autobiografico, un lavoro che nasce dalla memoria molto dolorosa di un bambino perso al settimo mese. Io ho cercato però di farne un’occasione per parlare della maternità e quindi anche del rapporto con un figlio che si immagina andare avanti negli anni e crescere, come ho visto crescere i figli delle mie amiche, più o meno della mia età, figli che spesso si sono rivoltati contro la famiglia per poi perdersi, oppure per ritornare e recuperare. Sono partita da un fatto personale, si tratta di un tragitto all’interno del rapporto madre-figlio, e ho poi cercato di allargare l’argomento ad una riflessione più amplia, facendo nascere un discorso sulla storia, sulla mitologia e sull’educazione.
D: La perdita del bambino durante la sua gravidanza è una questione che emerge in altri testi, come ad esempio Un clandestino a bordo. In quelle sue riflessioni di allora rivolte ad Enzo Siciliano, però, la questione rimaneva marginale e prevaleva una riflessione più profonda sul corpo, sul ventre materno, sull’aborto. Ci vengono in mente anche alcune sue poesie e Il treno per Helsinki che racconta però in forma romanzata proprio l’esperienza di una gravidanza interrotta da un aborto spontaneo. Ma sono passati tanti anni da quei libri. Che cosa l’ha spinta, proprio ora, a scrivere di questa perdita in un modo così diretto, profondo e più pienamente autobiografico?
DM: Sinceramente non lo so, c’è sempre qualcosa che cova nella nostra immaginazione e a un certo punto viene fuori e capisci che devi scrivere quel libro. Sinceramente non c’è nessuna intenzione editoriale o storica, è un bisogno che a un certo punto si è realizzato. Credo che tante cose avvengano per una serie di processi che non sono del tutto prevedibili e governabili. Lo scrittore è in balia dei suoi fantasmi, delle sue idee, delle sue paure, dei suoi ricordi. Non so perché ho scritto questo libro, ma stava dentro di me e aveva bisogno di essere scritto. Io, sì, vagamente ho parlato di quest’aborto spontaneo in altri libri, ma in maniera così raccontata e complessa non l’avevo mai fatto, quindi sicuramente stava lì, era una delle cose che dovevo raccontare, c’era un’urgenza interiore che è venuta fuori.
D: Alla luce della tematica così intima del dolore che si affronta nel testo, quanto è stato difficile scrivere questo libro? Cioè, per lei che ha detto più volte che scrivere è come innamorarsi, è stato facile o difficile scrivere questo libro?
DM: Questo libro parte da un grande dolore, da un’esperienza molto drammatica. Io penso che lo scrittore non possa sempre parlare degli altri, deve parlare anche di se stesso, mettersi in gioco e qualche volta denudarsi. È stato un momento della mia vita che, secondo me, andava raccontato. L’ho fatto, ma non è stato programmato. Avevo scritto tre romanzi – il romanzo su Chiara d’Assisi, la raccolta di racconti L’amore rubato, e poi Tre donne – che non avevano niente a che vedere con l’autobiografia, ma poi è venuto fuori il bisogno di trattare un tema diverso. Ogni tanto lo scrittore deve mettersi in gioco, anche con se stesso.
D: In Corpo felice, il racconto strettamente autobiografico si fonde a momenti più saggistici, due scritture così diverse si amalgamano in una narrazione che riesce a fare emergere il dolore personale e il suo ricchissimo bagaglio di conoscenze intellettuali. Come riescono a coniugarsi così bene queste due scritture?
DM: Sì, questo è quello che i francesi chiamano un “récit”, cioè non è un romanzo, ma è una specie di riflessione storico-filosofica, esistenziale, che parte da una realtà, perché altrimenti sarebbe tutto astratto e poi farei la filosofa. A me interessa la realtà legata all’osservazione e alla memoria storica.
D: La parte autobiografica del libro riesce ad appassionare emotivamente il lettore, che una volta coinvolto viene guidato in un percorso di formazione intellettuale sul femminismo, sulle donne, sul corpo. Oppure è la parte saggistica che invece aiuta la scrittrice a staccarsi emotivamente dal dolore strettamente personale?
DM: Io credo di avere una tendenza a razionalizzare; a me non interessa soltanto la parte lirica e memoriale, ma anche l’osservazione storica, quindi la razionalizzazione, per cui le due cose sono andate insieme. Per me, ogni avvenimento si porta dietro una serie di osservazioni, non va mai da solo. È importante, ogni volta, cercare di capire cosa ci sia dietro. In Corpo felice avviene una specie di catastrofe materna perché c’è una madre che perde un figlio e che poi continua a sentire questa voce che ritorna, e questa è la parte emotiva. Poi, però, mi sono chiesta altre cose: che senso ha la maternità? Perché la viviamo in questo modo? Che cosa è stata in origine? C’è stata una diversa valutazione del corpo umano nella storia dovuta alla maternità? Non è stata forse depredata dal corpo femminile per farne una questione di proprietà e di possesso? Sono andata a leggere un sacco di libri legati all’idea della maternità quindi per me questa è diventata un’occasione per riflettere su questo tema.
D: Il linguaggio dell’opera – poiché rivolto a un bambino – sembra riuscire a semplificare e sintetizzare concetti complessi in modo da renderli accessibili anche a un vasto pubblico di lettori, compresi quelli che non necessariamente hanno dimestichezza con i temi trattati nel libro. Era un suo intento?
DM: È vero, ha detto benissimo. Ho scelto proprio un dialogo, perché non è una riflessione storica, così, al mondo intero, è un dialogo con un bambino, quindi ho cercato di usare un linguaggio semplice e comprensibile. Poi il figlio diventa adulto e io parlo con lui da adulta. Ma io parlo con uno che non sta studiando questa storia e non si è mai interessato alla storia del femminismo e quindi cerco di spiegare tutto come se non sapesse niente.
D: Quindi a chi si rivolge questo libro? Aveva in mente un lettore preciso?
DM: Non lo so, ed è bene non saperlo. Le ricerche sui lettori le fanno gli editori, chi commercia con i libri. Io, quando scrivo, immagino un lettore, ma un solo lettore ideale che abbia voglia di capire, che sia disponibile e aperto.
D: Alla fine del libro viene fornita anche un’amplia bibliografia. Si tratta di uno strumento che ha voluto dare al lettore per continuare ad esplorare la sua ricerca?
DM: Sì, è un invito al lettore, qualora ne abbia voglia e sia interessato ad approfondire e ricercare quei testi che ho citato nel libro.
D: Quando sono cominciate queste sue ricerche?
DM: Tanti libri che cito, come ad esempio quello di Simone De Beauvoir, Virginia Woolf, Adrienne Rich, risalgono a letture fatte negli anni ’70, ma poi li ho riletti per recuperare le loro teorie e trovo che siano di grande attualità. La problematica dell’emancipazione non è una cosa risolta, ci sono dei miglioramenti legali per la donna, ma dal punto di vista della prassi non c’è ancora una grandissima emancipazione.
D: È il momento storico che sta vivendo l’Italia che ha creato questa urgenza di invitare i lettori a riflettere sulla storia delle donne?
DM: Non è fatto apposta, ma diciamo che coincide, perché c’è un regresso in questo momento e anche le donne, soprattutto le giovani donne che sono molto orgogliose dei propri diritti, devono capire che i diritti conquistati si possono perdere. Io vado molto nelle scuole e vedo ragazze liceali che sono più radicali di me, ma cerco sempre di fare capire loro che i diritti si devono difendere. Loro hanno la sicurezza che i diritti siano consolidati, ma sbagliano, non conoscono la Storia, perché la Storia invece ci insegna che non c’è una linea diretta verso l’emancipazione, si fa un passo in avanti e poi si torna indietro. A volte quei diritti che le donne hanno impiegato secoli ad acquistarsi sono stati persi. Questo pericolo c’è sempre. In alcune parti del mondo addirittura siamo tornati indietro. Quando ero stata in Afghanistan con Pasolini, per esempio, alla fine degli anni ’60, le donne erano come noi, nessuno portava il burka, erano donne povere, in una società povera, ma le donne lavoravano, andavano in giro, facevano i mercati, non ho mai visto un burka. Noi pensiamo che sia sempre stato così, ma non è vero. È con il totalitarismo religioso che tutto è cambiato. Le donne sono diventate dei fantasmi: una delle prime cose che hanno fatto è stato mettere le donne al loro posto e controllarne il corpo, il ventre, la morale. Sapere che c’è un andare e venire dei diritti è importante e invece, purtroppo, si tende a dimenticare. Io nel libro non voglio fare una cosa didattica, non è nella mia intenzione, ma viene fuori la voglia di dire e di fare capire che bisogna stare attenti perché i diritti si perdono. Adesso in Italia si sta tagliando sugli asili nido, si sta tagliando sulla scuola, si sta
tagliando sulla maternità, e tutte queste cose sono un attacco contro i diritti delle donne che sono stati acquistati dopo secoli. Anche i diritti maschili possono essere persi. Per esempio, il diritto alla parola: in questo momento in Italia e in Europa c’è un attacco al giornalismo e certi giornalisti rischiano la loro vita, vengono aggrediti, picchiati, insultati. Questo è un segnale della mancanza di libertà di parola, che è una delle prime importanti libertà di una società.
D: Mi sembra che in Italia queste idee o questa consapevolezza storica non venga spesso insegnata alle giovani all’interno del mondo della scuola.
DM: Il mercato è aperto, ci sono sul mercato tantissime donne scrittrici, ma quando si passa alle istituzioni letterarie, cioè ai luoghi dove si stabiliscono i valori per le prossime generazioni, i modelli, le donne scompaiono totalmente. Se si va a vedere in quelle belle panoramiche sul ‘900, al massimo ne nominano una di scrittrici.
D: Forse, come dice Lei nel libro, bisogna tornare indietro ai tempi della mitologia antica…
DM: È vero, uno si chiede quando è cominciata questa cosa e si scopre che dietro c’è una storia di denigrazione della donna e di riappropriazione dei poteri femminili. Uno di questi è la maternità, che era considerata un potere importantissimo ed è stato rovesciato. Io considero la mitologia una radice culturale e storica che ci appartiene, e che ormai è entrata nella nostra geografia mentale. Mi ha sempre interessata molto, perché trovo che simbolicamente sia di grande visionarietà. I greci hanno avuto la capacità di vedere in chiave simbolica dei casi umani. Ho fatto molte letture e molte ricerche sul mito greco; era un mondo molto misogino, ma ha creato anche tante figure femminili importanti, come Antigone, per esempio.
D: In questo processo di conquista e di perdita dei diritti, le donne che ruolo hanno avuto? Nel suo ultimo libro, la narratrice si rivolge a se stessa, auto-analizzandosi, chiedendosi dove e in che cosa abbia sbagliato quando Perdu comincia a entrare nel gruppo.
DM: Si è vero, auto-analizzandosi e colpevolizzandosi, perché le donne spesso si colpevolizzano. Però la sua è una guerra con la società e la società spesso è più forte. Non è che lei abbia sbagliato, ma è che non ce l’ha fatta, come non ce la fanno le donne che sono da sole. Se invece si mettono insieme allora possono vincere. Perché è stato vincente il femminismo? Perché veramente c’era una rete di donne che in tante parti del mondo combatteva e andava per strada per dire no e cambiare la legge. Le leggi sono cambiate in Italia, basti pensare al delitto d’onore o al diritto di famiglia, per esempio, però bisogna essere insieme, ci vuole la collettività.
D: Le parole violente di Perdu sembrano richiamare un po’ il romanzo di Simona Vinci Dei bambini non si sa niente, che affronta il tema della sessualità dei ragazzini e della degenerazione della sessualità quando gli adulti intervengono con le loro perversioni. Perdu è ancora un ragazzino, ma vocalizza un suo desiderio di violenza verso una giovane ragazza. Perdu però cambia, non diventa come i personaggi della Vinci.
DM: Quello è un libro molto forte, molto bello, che rivela una violenza, una prepotenza, una misoginia di grande forza. La Vinci ha ragione e spesso noi non ci rendiamo conto di quello che succede nella vita dei ragazzi. Perdu ha un momento di rivolta, ma poi riesce a capire che ha sbagliato. In tanti mi hanno chiesto perché non avessi scelto una bambina, ma la mia storia era così, con un bambino. Se fosse stata femmina, probabilmente avrei fatto un altro discorso. Le mie amiche femministe hanno avuto dei figli che poi sono diventati tutt’altro. Alcuni sono andati a finire nella droga, nella disperazione, in una zona, diciamo, opaca; altri hanno recuperato, dopo che si sono innamorati, sposati e hanno avuto figli. Secondo me, c’è un momento molto delicato nella vita in cui un figlio esce dal nido e cerca di volare, e come gli uccellini deve imparare a volare da solo. Alcuni passano quel periodo di rivolta contro i genitori, un po’ come Perdu. Lui vede la madre come una vecchia femminista, moralista, rompiscatole, è preso dal gruppo e pur di farsi accettare dal branco accetta delle idee che sono esattamente il contrario di quelle che la madre gli ha insegnato. Poi però, quando s’innamora, recupera. L’amore è l’unico sentimento che apre le porte, che ti fa interessante agli altri, che ti fa capire gli altri, altrimenti si creano delle divisioni artificiali che non significano niente: noi/loro, le donne/gli uomini, i buoni/i cattivi. Gli esseri umani sono complessi e vanno visti nella loro complessità. Solo l’amore può fare scoprire questo, non solo l’amore sentimentale, io intendo anche l’amore verso la natura e il futuro, l’amore verso la propria generazione, l’amore per dei progetti fatti in comune. L’amore come spinta può farti capire che esistono gli altri, che esistono dei rapporti non soltanto fatti di odio, di rifiuto, di contrasto, ma anche di affetto e di solidarietà. Nel libro, Perdu riesce a recuperare con l’amore. Il branco in cui lui capita è terribile perché è un branco selvaggio che in fondo si rifà alle vecchie idee di rapina, di odio animalesco, ma pur di essere accettato dal branco accetta queste idee perché vuole partecipare. Ogni persona ha bisogno di far parte di un gruppo, ma spesso nella società esterna alla famiglia ci sono dei pericoli. Ma non è certo per colpa della madre che ci si perde, io non voglio colpevolizzare la madre. Spesso fuori ci sono delle trappole tremende, trappole culturali, politiche, economiche; i gruppi hanno una loro psicologia interna che è selvaggia e crudele e se uno va a finire lì dentro magari lo ricattano, ed è difficile uscirne. C’è una società fuori che spinge i giovani ad andare verso la violenza verso la predazione, verso l’odio.
D: Ci sembra che in tanti suoi libri gli amori e gli uomini che le donne scelgono siano spesso sbagliati. Che cosa pensa a riguardo?
DM: Purtroppo la realtà è cosi: l’amore c’è, naturalmente ci si innamora, però spesso poi viene fuori l’educazione e la cultura; in Italia c’è ancora una cultura in cui l’uomo pensa di aver diritto alla proprietà della donna, l’uomo pensa in assioma “ti amo e quindi sei mia”. La cultura del possesso, del dominio, è rilevante anche negli uomini colti che ancora non tollerano che una moglie possa essere indipendente. Però sono sempre questioni culturali, io non credo che uomini e donne siano diversi, non credo che ci siano delle differenze biologiche, credo che siamo tutti uguali, solo che abbiamo avuto una storia diversa e noi donne abbiamo introiettato nei millenni un grande senso di colpa. Ci hanno costretto ad imparare cose buone come la capacità di curare i bambini e gli anziani e, secondo me, una cosa molto buona che abbiamo imparato è la sublimazione, che è stata forzata, ma è una cosa buona. Le donne hanno imparato a sublimare e infatti sono meno criminali. Ho fatto delle indagini e su ogni 100 donne ci sono 3000 uomini in prigione, ma questo non vuol dire che gli uomini siano criminali di nascita; io credo che nasciamo tutti uguali, però all’uomo si dice che deve fare la guerra, deve prendere, conquistare, fare competizione, che ha il diritto al controllo delle donne, per cui gli uomini si sentono più legittimati e non hanno imparato a sublimare. Sublimare significa imparare a reprimere i propri istinti naturali, ma da noi c’è questa costruzione così introiettata nel profondo, sia dalle donne che dagli uomini, che quando viene messa in discussione salta tutto, saltano le basi del rispetto verso l’altro. Quando una donna viene abbandonata da un uomo piange, lo insulta, ma non le viene in mente di uccidere, invece nell’uomo è diverso, quando un uomo viene rifiutato poi può succedere un femminicidio. Ce ne sono quasi 200 casi all’anno. In Italia stanno diminuendo i delitti contro le persone, ma stanno crescendo i delitti dentro la famiglia; tuttavia, è sempre il maschio che uccide la femmina, non è il contrario. Non è che l’uomo sia cattivo, ma è che sta dentro la cultura della proprietà, del possesso, dell’arbitrio, per cui lui si sente in diritto di controllare; è un qualcosa di arcaico che viene fuori. E il controllo si identifica con la virilità.
D: Parlando di questa piaga della violenza contro le donne, specialmente nell’ambito della famiglia, secondo lei quanto la scrittura può aiutare una società a superare questo problema?
DM: Secondo me la scrittura non ha valore per cambiare le leggi, per mettere le manette, però serve per creare coscienza e consapevolezza. Più la gente è consapevole e più sta attenta, perché consapevolezza vuole anche dire controllo dei propri istinti, e il controllo ti fa essere una persona razionale che rispetta gli altri. Quindi lo scrittore ha il compito di creare una coscienza, nient’altro.
D: Tante volte sono le bambine ad essere vittime di abusi e violenze nei suoi libri: fin dal suo primo libro La vacanza, arrivando anche ai suoi romanzi più recenti, come ad esempio Tre donne, in cui la ragazzina protagonista rimane incinta del compagno della madre, o Corpo felice, in cui Perdu vocalizza un suo desiderio di violenza verso una ragazzina, perpetrando un discorso patriarcale di potere sul corpo femminile. Può parlarci di questa sua scelta?
DM: Naturalmente, chi si sente forte e potente se la prende con i più deboli. È una legge naturale. La nostra pretesa di essere migliori, superiori, addirittura figli di un Dio perfetto dovrebbe essere quella di dire “No, proteggiamo i più deboli.” Perché le leggi e la democrazia sono fatte per proteggere i più deboli. Fra le persone più deboli ci sono prima di tutto i bambini, e le bambine ancora di più, e poi gli anziani. Per questo, io dico, quando c’è un potere assoluto, non controllato, chiunque – uomo o donna – cerca di abusarne e di conservarlo; è una regola assoluta, psicologica. È quindi importantissimo creare un contropotere, che sia la magistratura o il giornalismo o un’altra forma di contropotere che controlli il potere stesso. Perché non c’è niente da fare, il potere tende a conservare se stesso ed eventualmente a fare delle leggi illiberali.
D: Corpo felice sembra essere in dialogo con Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci. Questo libro della Fallaci era nei suoi pensieri? C’è un filo rosso tra i due testi?
DM: Veramente no, perché lei ha un atteggiamento diverso da me. Il bambino che lei immagina rimane sempre bambino; non c’è una crescita, uno scontro. Ci sono stati parecchi libri che hanno scritto di questo rapporto madre-figlia, magari chiamandolo in un altro modo – mi sembra un tema molto sentito dalle donne che torna spesso. Sì, avevo letto il suo libro, ma non mi ha ispirato; il mio libro è venuto fuori da solo. Lei aveva scritto Lettera a un bambino mai nato contro l’aborto, mentre il mio non c’entra niente, è un’altra cosa. Una cosa che mi ha lasciato di stucco è stato invece l’ultimo libro di Erri De Luca che tratta dello stesso tema, ma dal punto di vista di un uomo, è incredibile! È la storia di un uomo che sta con una donna; lei decide di abortire e lui ci rimane malissimo. Il libro racconta la storia di una bambina con cui lui continua il discorso. Questo libro è uscito contemporaneamente al mio e nessuno dei due sapeva dell’altro. È un libro che mi ha impressionato perché in fondo la storia è uguale, anche se vista da parte di un uomo. Anche per lui, infatti, la perdita della bambina è una cosa terribile e decide di continuare il dialogo con lei. Questo però vuol dire, secondo me, che probabilmente certi temi arrivano in certi momenti. Forse in questo momento il tema madre-figlio/padre-figlia si sta diffondendo perché c’è una crescita di violenza contro i bambini e allora si avverte il bisogno di riflettere.
D: La maternità è un tema ricorrente nei suoi romanzi. In Donna in guerra, la protagonista Vannina rifiuta la gravidanza e cerca l’aborto. In libri successivi, degli anni ’80, come ad esempio Il treno per Helsinki ed Isolina, le gravidanze delle protagoniste sono interrotte involontariamente e con la violenza. Ma in La nave per Kobe, o in Tre donne, il suo penultimo romanzo, sembra esserci un recupero del potere e del desiderio materno attraverso il dialogo testuale che lei ha con sua madre in La nave per Kobe, o attraverso il personaggio della figlia che, pur giovanissima, contempla solo momentaneamente l’idea di un’interruzione della gravidanza in Tre donne. E poi Corpo felice riporta sulla pagina l’interruzione involontaria di una gravidanza tanto desiderata. La decisione di aborto di Vannina, dunque, risulta essere una scelta a sé stante, una scelta che rifletteva le idee femministe di rifiuto della maternità di quegli anni ’70, mentre le sue tante altre protagoniste (Isolina a parte) tendono a volere riscoprire il desiderio del materno e della maternità. Potrebbe approfondire un po’ questa parabola del desiderio materno?
DM: In una società a misura di donna, l’aborto non esisterebbe proprio; io non credo che l’aborto sia una grande conquista. Certo in una situazione in cui l’alternativa non c’era perché era proibito usare qualsiasi tipo di anticoncezionale, l’aborto era l’unica cosa possibile, ed è stato importante fare le lotte per l’aborto. Infatti, appena c’è stata la legge è calato il numero di aborti. Però, l’aborto non è una grande libertà perché è comunque una violenza contro il corpo della donna, contro il progetto di nascita. Certo, legalizzare l’aborto è stato importantissimo perché è uscito dalla clandestinità, però è sempre una violenza contro il corpo femminile e quindi non lo considero una grande libertà per le donne. L’unica alternativa è la maternità responsabile, cioè dare alla donna tutte le possibilità per non rimanere gravida se non vuole. Fino a cinquanta anni fa, la chiesa proibiva gli anticoncezionali e gli anticoncezionali femminili erano considerati un tabù, non si trovavano da nessuna parte. Secondo me non si deve arrivare all’aborto. Non mi sembra una conquista così liberatoria; a quale donna fa piacere abortire? A nessuna! Bisogna invece fare educazione e bisogna fare in modo che la donna abbia a disposizione tutti gli strumenti, sia culturali, che fisici, che medici per non rimanere incinta e quindi non dover abortire. Tutta questa situazione è dovuta al fatto che, in realtà, delle donne non si è mai interessato nessuno. Nel romanzo Tre donne, la nipote è un po’ incosciente, non si rende conto del dolore che procura alla madre e non pensa alle conseguenze delle cose; per lei, come succede spesso ai ragazzi, il sesso è una cosa così, che si fa e poi si dimentica. Poi però l’arrivo del figlio diventa un dramma e infatti lei pensa all’aborto, ma la nonna la aiuta a tenere il bambino. La maternità per me è una cosa bellissima, ma deve essere controllata e i figli vanno fatti quando si vogliono fare e quando si possono fare. Non ne faccio una questione moralistica, ma una questione di sensibilità e di responsabilità. La responsabilità è tutto nella vita, bisogna pensarci alle cose.
D: Il libro si apre con il racconto di un episodio d’infanzia e di un momento d’ingiustizia che i genitori compiono nei suoi confronti quando non le credono. Poi il testo si sviluppa in un’altra direzione, affrontando temi di donne e femminismo. Qual è il motivo di questa scelta iniziale?
DM: Io ho sempre avuto una grande indignazione verso l’ingiustizia e mi sono chiesta, “da dove nasce questa indignazione?” e uno dei miei primi ricordi è proprio questo di un’ingiustizia subita in famiglia, con me che sono scappata di casa e che non volevo più tornare. Evidentemente era molto forte la mia indignazione. E credo che mi abbia segnato, perché è proprio questa indignazione contro l’ingiustizia che mi spinge tante volte a prendere posizione, a scrivere, a fare polemica.
D: Al centro della narrazione, come ci dice anche il titolo che richiama anche l’ultimo saggio incluso in Un clandestino a bordo, c’è il corpo della donna e una ricerca della libertà femminile, è questo il corpo felice?
DM: Il corpo felice, secondo me, purtroppo non esiste per ora, perché il corpo felice dovrebbe essere quello che sa dare ma sa anche prendere, desiderare, chiedere. Invece, l’eros femminile esiste in natura, ma non esiste come immagine, come racconto, come codice; l’eros femminile rimane non detto. Tutta l’iconografia – dalla pittura alla pubblicità – è basata sull’eros maschile. La donna è il corpo del desiderio, ma non è lei che desidera. Questo deriva da una cultura che è ancora totalmente patriarcale e maschile.