Franzen, pur essendo uno scrittore puro – uno come Flaubert, insomma, o Lessing, o Morante – ci ha sempre abituati anche alla sua vena saggistica, o meglio forse editorialistica (nel senso che i saggi di solito si portano dietro un’impronta accademica, hanno note a piè di pagina, abbondano di citazioni ecc. mentre qui abbiamo piuttosto degli editoriali lunghi, che si leggono senza particolare difficoltà).
The End of the End of the Earth, pubblicato negli Usa da Farrar, Straus and Giroux e ora in Italia da Einaudi (traduzione di Silvia Pareschi) è il quarto volume di questo tipo proposto dall’autore de Le correzioni. Io ho amato più di tutti il primo, Come stare soli, in cui veniva perfettamente esplicitata la sua vena umanistica e antitecnologica (leggi: anti-ICT e social network, che ritorna anche stavolta).
In seguito il mio entusiasmo per il Franzen saggista si è un po’ affievolito, senza peraltro spegnersi del tutto. Una parabola simile a quella che ha conosciuto la mia considerazione per il Franzen scrittore, che ho trovato: magistrale in Le correzioni, quasi-magistrale ma assolutamente coraggioso in Libertà (il coraggioso si riferisce al suo tentativo di riportare le sue passioni ecologiste dentro il meccanismo narrativo), un po’ fuori fuoco in Purity (come noteranno i più attenti, non ho menzionato i primi due romanzi, perché per il 99% di noi lettori Franzen, il vero, grande Franzen, inizia con Le correzioni, punto).
Di cosa parlano dunque gli articoli contenuti in questo libro? Del futuro del pianeta, certo, o della sua probabile fine, almeno nelle forme che noi conosciamo e sperimentiamo ora. Quindi degli effetti del cambiamenti climatico, che i conservatori negano permicamente e i progressisti non sanno come arginare. Ma anche di New York, di viaggi – dal Ghana all’Antartide – di altri scrittori, William Vollmann, in particolare, degli amati uccelli, di Trump e così via. Il tono, qui, rispetto al passato, si è fatto un po’ meno moralista-disilluso, come riconosce lo stesso autore, riandando con la memoria a cose scritte in passato, in cui denunciava con maggior vigore l’ipocrisia (o la debolezza) della stessa opinione pubblica “di sinistra”, un tipo di denuncia che in Italia conosciamo benissimo perché da sempre abbiamo qualcuno un po’ più a sinistra di qualcun altro. Rimane, tuttavia, l’avversione nei confronti dei social, che Franzen non frequenta, pur venendo messo a conoscenza da amici dei giudizi che altri esprimono su di lui in Facebbok o con Twitter, e pur citando ad esempio un video postato su youtube, il che fa pensare che ogni tanto un’occhiata a quel che passa la rete gliela dia.
Il valore dei diversi interventi – che compongono anche una sorta di diario – è diseguale. Alcune delle questioni toccate sono naturalmente molto importanti. Su tutte, ancora una volta, quella relativa al nostro rapporto coi i social network: perché ci ostiniamo a privilegiare micro narrazioni episodiche, quelle che rimbalzano da un post a un tweet, anziché leggere dei saggi? Cioè, detto in altro modo: perché preferiamo la superficialità, la mera testimonianza, lo sfogo, la polemica sterile, alla complessità? Sia come sia, sentenzia Franzen, Trump non sarebbe esistito senza Facebook e Twitter. Si può essere d’accordo, ovviamente. Anche se (e diciamolo in maniera un po’ schematica, come si farebbe in un saggio, o come faceva un tempo il nostro Scalfari nelle sue lenzuolate su La Repubblica): a) non è chiaro a questo punto se i progressisti dovrebbero semplicemente smettere di usare la rete oppure se dovrebbero usarla meglio, come mi pare suggerisca invece Baricco b) in fin dei conti siamo sempre alle prese con il vecchio problema del rapporto fra alto e basso, fra Cultura con la C maiuscola e cultura-spazzatura, fra criteri di giudizio oggettivi, argomentati, universalmente accettati, e opinioni meramente personali, generate da umori e inclinazioni soggettive.
Questo è anche il problema posto dalla questione epocale dei cambiamenti climatici: da un lato, abbiamo i rapporti della IPCC, ovvero di uno dei più grandi forum scientifici esistenti oggi al mondo, dall’altra le opinioni di qualche “cavallo pazzo” della politica, che sono appunto solo tali, opinioni, spesso nemmeno disinteressate. Ma tant’è. Il mondo oggi va così e nemmeno Franzen, che oggi ricorda il suo passato e i suoi ormai lontani esordi newyorkesi senza nemmeno tanta osborniana rabbia, può farci nulla. Se non testimoniare, questo sì, caparbiamente, la sua coerenza e la sua onestà intellettuale.
Tuttavia questo libro contiene alcuni spunti di riflessione interessanti. A mio parere uno di questi riguarda un certo “riduzionismo climatologico” che, secondo Franzen, rischia di invalidare qualsiasi altra iniziativa in favore dell’ambiente, degli animali, di qualche tema anche molto specifico, del tipo: come impedire che qualche migliaio di uccelli si sfracellino ogni anno contro le pareti trasparenti di un nuovo stadio? Se il punto è che fra qualche tempo il pianeta terra, così come noi lo conosciamo, non esisterà più, darsi tanta pena per combattere battaglie molto specifiche e settoriali non può che sembrare uno spreco. Franzen, pur con il suo tono pacato e dialogante, prende nettamente le distanze da questo modo di ragionare. “Finché la necessità di mitigare i cambiamenti climatici prevarrà su ogni altro problema ambientale, nessun paesaggio del pianeta sarà al sicuro”, dice ad esempio, parlando di un progetto di conservazione ambientale in Costa Rica. Un progetto che, a quanto si capisce, ricalca proprio l’approccio descritto da Franzen in Libertà, che potremmo definire: basato su un ragionevole compromesso. Funziona così. Un pezzo di territorio viene sottoposto ad un protezionismo radicale, e diventa una culla di biodiversità, un habitat interamente votato alla conservazione. Attorno a questa sorta di “oasi”, però, le attività umane, anche alcune molto impattanti, vengono consentite. In questo modo si crea una sorta di equilibrio, vantaggioso per entrambi gli schieramenti, quello protezionista e quello sviluppista. Ma non basta: anche nell’area destinata a parco è necessario ottenere via via un sempre più forte coinvolgimento delle popolazioni residenti, altrimenti queste continueranno a vedere il parco come un corpo estraneo (da violare ogni volta che si può o che conviene).
“Il climatismo – scrive ancora Franzen – è estraniante quanto il globalismo”. Per difendere l’ambiente bisogna perciò entrare ben dentro i rapporti e i legami che intercorrono fra i diversi habitat e le diverse specie animali, uomo compreso.
Jonathan Franzen, La fine della fine della terra, Einaudi, 2019 (trad. Silvia Pareschi).