Quello che accade, e accadrà a Parigi e in Francia merita non solo attenzione, ma anche prudenza: per non abbandonarsi a giudizi avventati e fuorvianti, e non cedere a facili, superficiali, suggestioni o paragoni che non hanno ragion d’essere. Il caso vuole che sia fresco di stampa un romanzo pubblicato da Sellerio, “Vite bruciate”, di Dominique Manotti. È stata una militante politica e sindacale, fin dai tempi della guerra d’Algeria; ha militato in movimenti e sindacati della sinistra pura e dura, quella imbevuta di marxismo triturato in mille salse; ora insegna storia economica all’università Paris VIII. È autrice di numerosi “noir”, e vinto numerosi premi letterari per il genere “giallo”: dal Prix Mystère de la critique”, al “Grand Prix de la Littérature Policière”. Alcuni “noir” sono di pregio: “Oro nero”, “Il sentiero della speranza”, “Le mani su Parigi”.
“Vite bruciate” è un romanzo, ne ha il respiro e la cadenza; ma definirlo “romanzo”, pur se esatto, al tempo stesso è riduttivo. È una storia fatta di storie che raccontano e spiegano molta di quella che è una cronaca quotidiana: che ci scorre sotto gli occhi, e le prestiamo una distratta attenzione; sbagliando.
È ambientato in Lorena, nord-est della Francia: una zona di industria siderurgica, un tempo fiorente. Anni ’90, la “globalizzazione” è iniziata; in fabbrica c’è un manager presuntuoso e ignorante; i lavoratori protestano e scendono in sciopero, e… la vicenda si tinge di “noir”. Un “noir” sociale, ma sempre “noir”, per cui conviene fermarsi qui.
Al di là della storia, è la “cornice”, il contesto, che merita attenzione. Può aiutare a capire quello che accade in questi giorni, che per quanto appaia fiammata improvvisa, è comunque un fuoco che evidentemente covava, tra la generale disattenzione e incomprensione. Aiuta a capire, più di tante analisi a posteriori di specialisti della comprensione del “dopo”. Quelle “vite bruciate” sono la descrizione di una certa Francia che c’è e che chi oggi siede all’Eliseo e in altri luoghi del potere reale non ha capito, non sa capire.
I romanzi di Georges Simenon (non solo i Maigret) descrivono magistralmente una Francia provinciale, piccolo-borghese, ipocrita, con i suoi non molti pregi e i suoi innumerevoli difetti, e che certamente oggi non c’è più, ma ha generato quella di oggi. Lèo Malet, col suo Nestor Burma, è un po’ il contraltare della Francia descritta da Simenon, racconta e mette a nudo una società “altra”, più da bassifondo, proletaria. Una Francia che poi ispira i Claude Izzo, i Didier Daenincks, i Fred Vargas, i Serge Quadruppani. La Dominique Manotti è un buon termometro per compulsare una febbre con cui credo si faranno i conti per ancora un bel po’ di tempo. Emanuiel Macron (non solo lui, beninteso), bene farebbe a leggere “Vite perdute”, e trovare il tempo per una chiacchierata con Dominique Manotti. Magari resta della sua opinione; ne acquisterebbe comunque, in termini di conoscenza.