Ritorniamo dopo un po’ di latitanza dovuta a vari impegni – anche di scrittura – a camminare on the book side, e lo facciamo con un libro a tema musicale, come si conviene ad una rubrica che, dopotutto, prende il nome da una celebre canzone dei primi anni ’70.
Parliamo di Sting, artista fra i più famosi al mondo, su cui si sono spesi fiumi d’inchiostro e bites, Ma questa volta il punto di vista è particolare, oserei dire obliquo.
Questo libro di Paul Carr, Sting: ritorno ai cieli del nord. Dai Last Exit a The Last Ship edito in Italia da Galaad edizioni, si concentra sulle origini della popstar, che come ben sanno i fans, sono origini proletarie. Prima dei Police, prima delle sue scorribande con jazzisti famosi, prima di diventare proprietario terriero e produttore di vini in Toscana, prima del successo planetario, insomma, Gordon Matthew Sumner, in arte Sting, è stato un figlio del profondo Nord britannico. E in Inghilterra la realtà è rovesciata rispetto all’Italia: la parte depressa sta in alto, quella sviluppata, quella di Londra, per intenderci, a Sud.
Sting è nato il 2 ottobre 1951 a Wallsend, la zona industriale di Newcastle, dominata dai cantieri navali, un sobborgo in verità non del tutto anonimo essendo il punto terminale, sulla costa Est dell’Inghilterra, del Vallo di Adriano. La stessa classe lavoratrice locale, impiegata nel settore nautico e nelle miniere, in passato aveva costituito una sorta di “aristocrazia operaia”. Sting, in ogni modo, è cresciuto in una famiglia modesta. La sua prima abitazione era un’umida casa vittoriana, senza riscaldamento centralizzato. La Tatcher non aveva ancora lanciato la sua micidiale offensiva neoliberista, che negli anni 80 avrebbe fatto a pezzi i potenti sindacati legati a doppio filo con il Labour. Ma anche negli anni 60 e 70 le luci della swingin’ London erano lontane da Wallsend.
Tuttavia anche lì la musica era uno dei principali poli di attrazione per i giovani e uno sfogo per le ambizioni frustrate. Sting nel 1963 si era iscritto in una scuola cattolica maschile, la St Cuthbert, diplomandosi con buoni voti. Ma il successivo tentativo di studiare inglese alla Warwich University naufragò dopo un solo trimestre, spingendo il giovane Gordon verso un college che formava i futuri insegnanti (viene in mente l’implacabile motto: “Chi può, fa, chi non può, insegna”). Ma fu proprio al Counties che prese confidenza con il basso, iniziando un percorso attraverso alcune formazioni locali, i Last Exit, ma anche la Newcastle Big Band e i Phoenix Jazzmen, che rappresentò un apprendistato forse bizzarro ma di certo non inutile.
È curioso oggi leggere che in queste band Sting suonava musica fusion, e sognava di diventare il nuovo Stanley Clarke. Certo, amava anche Beatles e Stones, e aveva visto Hendrux dal vivo, ma futuri fasti con il Reggae ‘n’ Roll dei Police, quelli di Roxane, So Lonely, Walking on the Moon erano ancora lontani. Il talento e l’attitudine alla leadership, tuttavia, cominciavano già ad emergere. Sting, hanno dichiarato i suoi primi compagni di avventura, maturò presto la tendenza a presentare ai suoi partners composizioni “chiavi in mano”, non solo scritte ma anche completamente arrangiate. Cosa confermata in seguito anche da Andy Summers e Steward Copeland, il brillante chitarrista – conosciuto a Newcastle – e lo strepitoso batterista – tampinato invece a Londra – della Polizia.
Il libro segue tutta la prima fase dell’ascesa di Sting, dagli show settimanali al Gosforth Hotel con i Last Exit, gruppo che aveva mutuato il nome dal celebre romanzo newyorkese di Hubert Selby Jr. Last exit to Brooklyn, e che suonava un po’ di tutto, blues, funk, prog, soul, con preferenza per il jazz, al suo trasferimento a Londra a fine 1976, e al conseguente impatto con la scena locale, dominata dall’energia del punk, quindi da gruppi come Sex Pistols, Clash, Damned, fino alla formazione dei Police ed alla velocissima ascesa nell’empireo della new wave, esplorando anche le sue passioni politiche e il successo americano.
La bussola del libro, comunque, punta sempre verso Nord. Carr del resto è anche lui, come Sting, un geordie, parola che designa gli abitanti del Tyneside e la loro parlata. E questo si avverte ad ogni pagina. C’è nell’autore di questa “non-biografia” il desiderio a volte quasi spasmodico di ricondurre la popstar a casa. E’ uno schema che vediamo spesso nella ricostruzione delle vite di personaggi famosi, in particolare nel mondo del rock (o dello sport). Lo schema è quasi sempre identico: un’infanzia modesta, il desiderio di farsi strada, di dare l’assalto al cielo, poi la realizzazione del sogno, il successo, con il suo corollario di lussi, agi, e frequentemente di esperienze “estreme”, che portano l’interessato al limite dell’autodistruzione. Quindi, a volte nel finale, il ritorno a casa, un ritorno reale o più spesso figurato, simbolico, e quindi la riconciliazione con le proprie origini. E’ lo schema di una narrazione fra le più universali, non trovate? Quella del figliol prodigo. Ed è ciò che vediamo, in parte, in Bohemian rapsody, il biopic dedicato a Freddy Mercury, altra stella del rock, nata non nel profondo Nord britannico ma addirittura a Zanzibar, che rompe presto con la famiglia ma che poi, nella fiction cinematografica, alla famiglia in qualche modo ritorna, poco prima di morire.
Con Sting non è proprio così, ma Carr ci dice che, dopo avere a lungo ripudiato le sue radici, ad un certo punto della sua carriera con Newcastle si è riconciliato. Al punto da farne la sua fonte di ispirazione per The Last Ship, l’album/musical del 2013 – il primo contenente degli inediti dopo 10 anni – centrato sulla piccola epopea di una squadra di operai che, nell’Inghilterra della signora Tatcher, votata alla competizione globale, costruiscono appunto “l’ultima nave”.