The Game, il nuovo libro di Alessandro Baricco, dedicato al “Grande Gioco” del web, fa un effetto curioso. Per certi versi, pur avendo senz’altro l’ambizione di essere un libro “di frontiera”, che racconta l’avvento dell’era informatica senza indulgere nelle paure o nei facili moralismi, è di fatto esso stesso un’opera un po’ naif: ricorda certe narrazioni dei tardi anni ’90 – l’epoca classica, nella scansione temporale proposta da Baricco – in cui l’informatica e i suoi protagonisti, hackers compresi, erano visti come gli eroi di una nuova rivoluzione culturale. Una rivoluzione che metteva alla berlina, fra l’altro, le élites del passato, politiche ed intellettuali, conferendo capacità di movimento e di azione, cioè potere, all’utente/navigatore dell’Oceano Internet. In verità, oggi vediamo com’è andata, e ovviamente lo vede anche l’autore. Al momento, se guardiamo ad esempio all’Italia, l’impressione è che chi riesce a sfruttare al meglio le potenzialità del web sia un certo Salvini, assieme alla sua Bestia, la poderosa macchina di informazione – o disinformazione – di cui si è dotato. E Salvini non assomiglia proprio per nulla ai geniali hippies tecnologici della Silicon Valley che hanno dato il calcio d’inizio alla rivoluzione della tastiera, quasi tutti ingegneri, quasi tutti americani, quasi tutti di sesso maschile (ma non esattamente machi o machisti).

Questo libro sostiene però anche una tesi ragionevole, una tesi “umanista”, che è la seguente: i pionieri del web non sono stati agiti dalle loro scoperte, anzi, avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal ‘900, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica. E lo hanno fatto. Lo hanno fatto con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe stato l’Uomo Nuovo ma avendo un’idea lucidissima degli strumenti che l’Uomo Nuovo avrebbe adoperato per modellare il mondo che aveva attorno a sé, creare un ultramondo virtuale in cui immergersi, ed infine mettere in comunicazione le due sfere, perché il web non è semplicemente una sorta di paradiso artificiale, è anzi in stretto rapporto con il cosiddetto “mondo reale”, lo influenza e ne è influenzato.
I pionieri erano per la maggior parte ingegneri, come abbiamo detto. Non umanisti. Erano persone orientate al problem solving piuttosto che alla speculazione intellettuale. Per questo hanno pensato agli strumenti, alle tecniche, agli algoritmi. Erano consapevoli che il vero cambiamento da lì dovesse partire. Come? Forzando i laboratori e i cervelloni in cui il sapere era tenuto sotto chiave, per metterlo a disposizione di tutti, attraverso quello straordinario strumento che si è rivelato essere il personal computer (e i suoi derivati, a partire dall’iphone). I nerds californiani hanno digitalizzato tutto il digitalizzabile: libri, immagini, musica, lettere, giochi. E poi lo hanno connesso. Hanno preso una tecnologia inventata dai militari – Arpanet, l’antesignano della rete – e l’hanno trasformata in qualcosa di diffuso, liquido, ludico, in estrema analisi pacifico, il www. Lo hanno fatto senza preoccuparsi troppo dei morti che seminavano sulla loro strada (ad esempio l’industria discografica, mentre quella del libro cartaceo pare sia sopravvissuta). Soprattutto, lo hanno fatto trasformando ogni singolo cittadino/utente della tecnologia nel loro migliore alleato.
Il nocciolo della narrazione di Baricco mi pare sia qui. È una narrazione ottimista, e propone un cambio di prospettiva rispetto alla maniera – ancora un po’ sospettosa – con cui molti intellettuali alle nuove tecnologie. Attenzione, scrive l’autore di Seta: l’uomo non è una vittima, il cervello umano non è quella materia molle e cedevole che il software plasma a suo piacimento, è esattamente il contrario, è stato il cervello umano a partorire il software e l’approccio multitasking, sono stati quegli uomini in fuga dagli orrori di Auschwitz e dei Gulag, quegli ingegneri imbevuti di controcultura (ma poco interessati agli acidi, probabilmente) a dar vita al Grande Gioco. Partendo da Space Invaders, ovvero dal sostituto del calciobalilla e del flipper. E anche questo ci dice qualcosa sulla loro natura, sulle loro attitudini, sulle loro ambizioni.
The Game segue ad altre cose scritte da Baricco sul tema, a partire da I Barbari, del 2006. Uguale mi sembra essere la preoccupazione dell’autore di non passare per un Matusalemme, un vecchio nostalgico dei bei tempi andati. Questo a mio parere costituisce anche uno dei limiti del testo. La narrazione di Baricco per certi versi potrebbe sembrare una sorta di versione 2.0 delle tesi di Francis Fukuyama (la Fine della storia, succeduta al crollo del Muro di Berlino, ricordate?). Tutto ciò che la contraddice – dalle Twin Towers alla guerra in Iraq – viene liquidato un po’ sbrigativamente come una sopravvivenza del 900. Quando Baricco dice che la pace e l’assenza di frontiere sono per la prima volta precondizioni per lo sviluppo dell’economia (digitale), non dice in fondo niente di diverso rispetto a quanto sostenuti dagli economisti classici, per i quali la vera panacea alle guerre fra gli stati era rappresentata dal libero commercio. Tutto vero, in teoria. Ma un po’ più difficile da tradurre in pratica.
Jobs, Bezos e compagnia hanno cambiato le nostre vite, su questo non c’è dubbio. Però, alla fine, il mezzo, per quanto affascinante, non è il messaggio. O non lo è fino in fondo. Lo strumento, il PC, non ha davvero riformato la società e la politica, non ha disintegrato i confini, che anzi rinascono un po’ ovunque, non ha reso gli uomini più aperti, permeabili, intelligenti, informati, in sintesi protagonisti della loro esistenza. Non ancora, quantomeno. Senza contare che ci sono molte cose della socielà predigitale, la società delle mediazioni e delle specializzazioni, a cui sarebbe molto pericoloso rinunciare. Ad esempio i corpi intermedi (dai sindacati alle università, cioè tutto ciò che fa sì che un individuo sia qualcosa di più o di diverso da una monade davanti a un portatile).
Per il resto, The game è scritto nel consueto stile smart, non-accademico, un po’ irritante, che ha fatto la fortuna dell’autore, che la lezione dei tanti narratori-saggisti americani l’ha imparata bene. L’approccio proposto è di tipo storico, e consente di riscoprire anche alcuni relitti delle passate stagioni digitali, come il glorioso Blackberry, l’antesignano degli smartphone attuali. Il linguaggio indulge a volte con troppa insistenza in certi tic giovanilistici (l’uso reiterato dell’aggettivo “commovente” per dire “sorpassato, ingenuo”, l’uso reiterato dell’aggettivo “scemo” per esprimere l’inadeguatezza di qualcosa/qualcuno).
Il libro ci dice però una cosa, fra le tante, che anche uno come me (che ha lavorato in un centro di ricerca in Intelligenza Artificiale per tutta la seconda metà degli anni 90, e quindi ha una visione un po’ disincantata della materia) è pronto a sottoscrivere: la salvezza sta nel movimento. Stando fermi ci si incancrenisce, ci si avvita su se stessi, si finisce per avere paura di tutto e costruire nuovi muri, mentali o fisici. La metafora della navigazione, nata assieme a Internet, è e rimane una metafora magnifica. Se poi tutto questo andare non ci abbia ancora condotti ad una nuova terra promessa, ad una nuova Itaca o ad una nuova America…beh, questo è un altro paio di maniche.