Vidiadhar Surajprasad Naipaul, premio Nobel per la letteratura nel 2001, appena scomparso, all’età di quasi 86 anni, non è stato uno scrittore facile e neanche un uomo facile. Nato a Trinidad il 17 agosto 1932, famiglia di origini indiane (di casta braminica, la più elevata), si era trasferito in Inghilterra, la sua seconda patria, nel 1950, per studiare ad Oxford. Scrittore di lingua inglese, moderno per eccellenza, se per modernità intendiamo il faticoso districarsi fra differenti memorie, identità, retaggi culturali, attratto a sua volta dai moderni, eppure fortemente polemico con alcuni giganti letterari come James o Hemingway, pienamente “globale”, ma non astrattamente multiculturale, Naipaul nei suoi libri ha raccontato sé stesso, le sue patrie reali, abortite o immaginarie, i Caraibi, l’Africa, l’India, l’Inghilterra (che lo nominerà Knight Bacelor, “Cavaliere della Regina”, nel 1990), il fondamentalismo islamico, e molto altro.
Non uno scrittore facile, dicevamo. Si sa che soffrì di depressione. Ebbe due mogli, un’amante molto amata ma non sposata. Fu anche un great prostitute man. Considerate le sue origini, Naipaul avrebbe potuto essere, in fondo, “solo” un altro narratore dell’universo tardo o post-coloniale, al massimo un disvelatore di “storie soppresse”, come recita la motivazione del Nobel. All’inizio in parte lo è stato, con una vena, dickensiana, comico-picaresca, che spesso appartiene a quel genere di letteratura. Invece, il suo percorso è stato più complicato. Più di tutto con L’enigma dell’arrivo, libro autobiografico del 1987 (all’epoca non si usavano espressioni come autofiction) in cui Naipaul racconta il suo approdo ad un cottage nella valle del Wiltshire, a due passi dal mistero di Stonehenge, che è anche un mistero dell’identità europea e britannica. Romanzo rarefatto, cerebrale, anche se naturalista, ispirato ad un quadro di De Chirico, romanzo ipnotico e senza un vero plot, dapprima affogato nel paesaggio dell’Inghilterra rurale, per poi volare a New York e altrove nel mondo, e quindi tornare, di nuovo, in Uk, libro dello spaesamento e dell’inquietudine (F. Pessoa), che racconta di perdite – due familiari, ma anche la “patria dei ricordi dell’infanzia” (J. Zoderer) – e di nuovi approdi (soprattutto: la scrittura).
Dunque uno scrittore metafisico? Nemmeno. In altri lavori, precedenti a questo, e che già lo avevano portato al successo, la chiave è il realismo. Senza sconti per nessuno. Ad esempio nel bellissimo Sull’ansa del fiume, ambientato in una città africana immersa nella foresta del Congo/Zaire, che altri non è se non Kisangani/Stanleyville, Qui Naipaul si mette sulle tracce di Conrad. E’ passato un secolo dai belgi e dai loro orrori, il protagonista della storia non è un giovane ufficiale di marina in cerca di avventure per mare ma un commerciante indiano che dalla costa del’Africa orientale decide di spostare la sua attività nell’interno, ovvero nel moderno “cuore della tenebra”. In questo e altri scritti, anche di viaggio, lo sguardo di Naipaul sull’Africa è tutt’altro che tenero; del resto l’Africa spesso gli asiatici li ha maltrattati e perseguitati, pensiamo all’Uganda di Amin, da cui vennero cacciati senza preavviso in una manciata di giorni, nel 1972.
Naipaul comunque non si occupa solo delle vicende storico-politiche: nell’Africa, dove viaggia più volte a partire dagli anni 60, rinviene ad esempio un comune sostrato magico-religioso, arcaico e inquietante, che sopravvive a dispetto della “civilizzazione”. Lo sguardo è sempre ravvicinato, è lo sguardo del viaggiatore e dello scrittore, non quello accademico. A volte gli ha fruttato l’accusa di razzismo, o quantomeno di incomprensione: Naipaul l’indiano, terrorizzato dalla foresta e dal vuoto di senso di cui è piena, sarebbe incapace di comprendere il punto di vista africano. Ma anche: Naipaul l’occidentale, terrorizzato dal ricordo del padre, giornalista e scrittore a sua volta, che sgozza una capra in un rito indù, sarebbe terrorizzato dalle sue origini.
Certo, rabbia, inquietudine, amarezza, ritornano spesso nella scrittura di Naipaul, e non solo quando si rivolge all’Africa. In verità l’autore ha usato lo stesso sguardo per indagare le sue origini, sia nella natia Trinidad, sia in India, sia nelle comunità indiane sparse per il mondo (che non si integravano, che rimanevano orgogliosamente isolate e distinte, come spesso accade alle comunità create dagli immigrati, ma con un di più dato qui dalla cultura di origine, che già vieta la mescolanza fra le caste, figuriamoci fra popoli diversi).
Non c’è un porto di pace dove riposare, se non nella letteratura. Naipaul rifiuta la narrazione consolatoria del terzomondisti, i miti della negritudine, della riscoperta dell’autenticità. Ma non abbraccia nemmeno l’occidentalizzazione forzata. Sa che i confini tracciati dai colonizzatori sono assurdi, che assurde e distorcenti sono state molte loro imposizioni.
Naipaul rimane uno sradicato, un ragazzo in fuga, che pur approdando ad una delle più importanti università dell’Occidente ne detesta riti e steccati. Naipaul, anche il Naipaul dei reportage, può aiutarci soprattutto in una cosa: ad allenare il nostro senso critico. A scavare, come cani da tartufo. A mettere a fuoco le mistificazioni nascoste nel concetto di identità. Ma può aiutarci anche ad apprezzare meglio le virtù di una società aperta, inclusiva. Non fanatica. Che dà spazio all’individuo e ai suoi sogni. Al fondo, la società europea e occidentale, quando è al suo meglio.