C’è un tema che ritorna sempre in Javier Marías, quello del segreto. I suoi romanzi ruotano attorno al non detto, a una verità nascosta, a ciò che è meglio non sapere o non rivelare (se non tardivamente, come per esempio in Un cuore così bianco).
Il tema del non detto richiama quello della menzogna, dell’inganno, perché se alcune verità devono rimanere nascoste, altre non-verità, o mezze verità, prendono il loro posto. Ciò vale sia per le cose della vita familiare – l’amore, le infedeltà – sia per la vita pubblica e la politica, compresi gli orrori della guerra civile spagnola e della dittatura franchista, al centro del penultimo suo Così ha inizio il male, o della trilogia Il tuo volto domani.
Tutto ciò ritorna ancora una volta in questo Berta Isla, pubblicato in Italia da Einaudi, ennesimo capolavoro di uno scrittore più volte in odore di Nobel, scritto in parte in prima e in parte in terza persona. Dove si parla espressamente di servizi segreti e di spionaggio, a cavallo fra la Spagna e il Regno Unito, nel periodo compreso fra gli anni ’70 e ’90 (con un rimando anche a due conflitti ormai “dimenticati”, quello delle Falkland/Malvinas e quello fra unionisti e separatisti nell’Irlanda del Nord).
Ma, com’è costume dell’autore spagnolo, lo si fa in maniera obliqua, “tangente”, perché, al pari dei personaggi dei romanzi, neanche i lettori possono sapere tutto, anzi, spesso ad essi vengono sottratte informazioni preziose. In questo modo la lettura diventa un processo di scoperta, di progressivo disvelamento, un po’ alla maniera del romanzo giallo, pur essendo i libri di Marías lontani da quel genere.
Berta Isla è una donna madrilena sposata a un uomo, Tomás Nevinson, che ha scelto come suo sposo fin da quando era adolescente. Ma quasi sul finire degli studi universitari, nell’apparentemente ovattato ambiente di Oxford, a Tomás, eccellente nell’apprendimento delle lingue e dotato per le imitazioni, è accaduto qualcosa che ha cambiato per sempre il corso della sua esistenza, e che lo ha portato a vivere una doppia vita, di cui la moglie è al corrente, ma sulla quale non può fare domande.
Una vita che lo costringe ad assentarsi da Madrid frequentemente, anche per mesi, senza nemmeno poter chiamare casa per accertarsi che moglie e figli stiano bene (o magari non siano vittime di una minaccia, come in effetti accade). Altro non diremo, perché, nonostante i romanzi di Marías siano lentississimi, la sorpresa o il colpo di scena sono centrali.
Sì, la lentezza. Stilisticamente parlando, una delle caratteristiche fondamentali della narrativa di Marías è di essere assolutamente fuori dal trend dominante, se il trend dominante è quello della velocità, imposto dalle tecnologie informatiche, che abbassano i tempi di attesa e la capacità di concentrazione (o più semplicemente, imposto dalle serie televisive, che costituiscono oggi la forma di narrazione “vincente”).
La scrittura dello spagnolo si colloca agli antipodi rispetto a questi paradigmi, se tali sono. Non solo perché Marías è un maestro della digressione, ma anche (anzi soprattutto) per la sua maniera di costruire il capitolo, la pagina e finanche ogni singolo periodo. Marías specifica, sottolinea, dilata, insiste sul concetto, lo ripropone sotto un’altra angolazione, lo definisce con abbondante uso di aggettivi e sinonimi.

I suoi protagonisti – in genere docenti universitari o comunque esponenti della borghesia urbana – parlano e pensano in maniera complessa, forbita (anche se Marías è maestro nel delineare certe figure un po’ borderline, come in questo caso il personaggio di Tupra, il “contatto” di Tomás con i servizi segreti britannici). Verrebbe da dire che l’autore, in questo modo, conduca una vera e propria battaglia con la sua ossessione. Più la verità nei suoi romanzi si nasconde, più la scrittura, con un procedimento molto filosofico, cerca di snidarla, di sbozzarla, di farla risaltare sullo sfondo delle menzogne o delle omissioni in cui si confonde.
Sempre a proposito di trend, va aggiunto che in realtà con le sue storie, a volte ambientate in un recente passato, Marías finisce con l’occuparsi di un tema quanto mai attuale. Cosa c’è di più attuale, oggi, del desiderio di raccontarsi, aprirsi, svelarsì, per essere riconosciuti e apprezzati da tutti? È il meccanismo che sta alla base del successo di Facebook e degli altri social media; ed è in fondo la versione 2.0 del vecchio desiderio di fama e di notorietà (di cui parlava ad esempio Andy Warhol negli anni 60).
Persino in politica, la “trasparenza” è insieme una virtù che tutti i partiti reclamano per sé e una promessa elettorale sempre efficace. Nella narrazione di Marías, al contrario, tutto ciò che realmente conta o è interessante rimanda a una dimensione nascosta, mascherata, secretata. “Non bisognerebbe raccontare mai niente” si legge all’inizio di Febbre e lancia, il primo volume della trilogia che citavamo prima.
In Berta Isla la via di uscita da un’esistenza grigia, subordinata, ininfluente, eterodiretta – insomma l’esistenza che conduce la stragrande maggioranza dell’umanità – passa per l’adesione alla segretezza, a una causa tenuta al riparo dagli sguardi indiscreti. Al contrario, “tutto ciò che è conosciuto è destinato ad essere inghiottito e banalizzato, a tutta velocità, e a non avere quindi nessuna vera influenza. Ciò che è visibile, che è spettacolo di pubblico dominio, non può mai cambiare niente”.
In questa ossessione per i segreti e la menzogna, ovviamente, ci sono anche echi biografici. Quello principale, quello che noi lettori conosciamo attraverso le interviste, riguarda il padre dell’autore, che venne denunciato da un amico come oppositore del regime durante la dittatura di Franco. Quella denuncia gli costò il posto all’università. Le dittature sono tutte diverse, eppure sono anche per certi versi tutte uguali. Le epurazioni sono uno dei loro passatempi preferiti, assieme, nei casi peggiori, alla tortura e all’assassinio.
Un’altra caratteristica di Marías è l’influenza sakespeariana. Che ritorna anche stavolta, con una scena dall’Enrico V, che ha a che fare, di nuovo, con l’inganno e la simulazione: il re alla vigilia della battaglia si traveste per mescolarsi alla truppa e sondare i suoi umori. Assieme a Shakespeare, qui troviamo il T.S. Eliot dei Quattro quartetti; Marías ha tradotto in spagnolo alcuni dei grandi classici della letteratura inglese, oltre ad avere lavorato per il cinema americano.
Infine, l’università. Oxford, che lo stesso autore ha frequentato, con i suoi riti, le sue esistenze tutte dedite agli studi e alle ambizioni proprie del mondo accademico, è al tempo stesso un rifugio al quale il protagonista non può tornare e un velo che nasconde una realtà molto più inquietante. È lì che scatta la trappola a cui lo studente brillante – forse un po’ vacuo – non può sottrarsi. Una volta ancora, niente è ciò che sembra.
Marías non consente mezze misure. O lo si ama o si interrompe la lettura prima di arrivare a pag. 50, perché snervati dal suo ritmo estenuante, dal suo posticipare di continuo la “soluzione”. Chi rimane, trova un indagatore dell’animo umano molto più fine di altri e più celebrati contemporanei, viventi o appena defunti.
Un autore che per certi versi potremmo avvicinare a Kundera, per la sua capacità di incrociare il privato – la vita coniugale innanzitutto – con gli scenari storico-politici (qui anche con alcune considerazioni generali sulla natura totalitaria dello stato, di ogni stato).
Ma, al contrario di Kundera, Marías non procede per omissioni, ma per accumulo. Le sue storie non scivolano con leggerezza sul ghiaccio sottile della vita, avanzano come lava, guadagnano terreno centimetro dopo centimetro, o meglio pagina dopo pagina. Quando poi la sorpresa arriva – spesso nella fase avanzata della lettura, anche se in Domani nella battaglie pensa a me, uno dei suoi romanzi più noti, è nell’incipit – di solito sorprende davvero.
E la sorpresa è la verità, o perlomeno, quello che l’autore di essa è disposto a concederci, nella consapevolezza che “noi non assistiamo a quasi nulla, non vediamo quasi nulla, non siamo in grado di affermare quasi nulla con certezza, anche se lo facciamo di continuo”.