
David Szalay è nato a Montreal, Canada, nel 1974, e vive in Europa: Budapest, recita l’aletta di copertina, anche se il web lo menziona genericamente come un autore “inglese”. Tutto quello che è un uomo è il suo primo libro a venire tradotto in Italia. Il Guardian ha scritto che “like its predecessors, his new book is populated by small men with oversized ambitions”. Poiché non conosco gli altri tre titoli dell’autore, non posso giudicare quel “come i suoi predecessori”. Penso però che “piccoli uomini con ambizioni enormi” potrebbe fuorviare il lettore. “Ambizioni” fa pensare a storie di uomini rampanti e competitivi, che inseguono carriere, potere, sogni. Invece la maggior parte dei personaggi di questo volume – nove in tutto – non ha brame smodate. I più sembrano fotografati nel mezzo di un salto, sospesi nel vuoto, incerti rispetto alle condizioni del suolo su cui atterreranno. Ma consapevoli, come si ripete un agente immobiliare al suo ritorno da una trasferta in una località di montagna dove spera di concludere un buon affare, che “la vita non è un gioco”.
Nove storie, dunque, apparentemente senza un filo conduttore, se non quello della successione cronologica, dalla giovinezza alla vecchiaia. L’intento, suggerito anche dal titolo, è quello di proporre un affresco variegato e credibile di cosa significhi essere individui di sesso maschile nella nostra epoca, e in un ambito che potremmo definire “occidentale”. Scorrono in queste pagine, che entrano sottopelle, che lasciano nel lettore una traccia duratura: un giovane nullafacente che ha accettato di farsi licenziare dallo zio senza battere ciglio, per trascorrere una vacanza low cost a Cipro; un body builder, reduce dall’Iraq, ingaggiato per fare da guardia del corpo ad una escort in trasferta a Londra; uno studioso di Oxford in viaggio fra l’Inghilterra e il Continente, innamorato del senso di libertà e di distacco dal mondo che l’ambiente accademico garantisce agli umanisti, un drop out inglese espatriato in una cittadina insignificante della Croazia e così via.
Che cosa fanno, in definitiva, questi uomini? Cercano o rifiutano donne, si tengono a galla con il lavoro, inseguono gratificazioni, affrontano sconfitte, e soprattutto viaggiano, un viaggiare depurato da ogni connotato romantico o “hippy” (alla Kerouac per intenderci).
I posti che visitano sono spesso non-luoghi, degradati (o “valorizzati”, per usare un linguaggio caro alla politica) dal dio dello sviluppo e del turismo. Abbiamo un Bed&Breakfast praghese dove si arena la vacanza di due amici sconosciuti l’uno all’altro, una Londra “qualunque” di cui i protagonisti ignorano le mille seduzioni (tranne quella del Museo delle cere), un paradiso mediterraneo assai diverso da quanto promesso nel depliant turistico, la campagna italiana attorno a Ravenna… Scenari ordinari, insomma, se non deprimenti, a fare da sfondo a vicende di piccole solitudini e di indefiniti rancori, appena rischiarate, a volte, da modeste rivincite, anche a sfondo sessuale. Il tipo d’uomo aggressivamente votato alla carriera, in queste pagine, c’è solo marginalmente: è il caso dell’ambizioso giornalista che non esita ad inchiodare un ministro di cui pure è amico dopo avere scoperto una sua relazione extraconiugale. Il profilo dominante, però, lo avrete capito, è quello dell’uomo in crisi.
Un’altra cosa salta agli occhi: questi uomini non sono inseriti in una comunità. Non hanno rapporti di vicinato significativi, non fanno volontariato, non sono membri di associazioni, sindacati, partiti, chiese, club, consigli scolastici o quant’altro. Al di fuori dell’ambiente di lavoro ed eventualmente di quello strettamente familiare, sono delle monadi, degli sradicati. La loro dimensione è l’individualismo. Su questo punto, ci sarebbe da riflettere, anche al di fuori del piano strettamente letterario.
Infine, gli uomini di Szalay in genere evitano le decisioni definitive, nonostante il disagio faccia quasi sempre la sua comparsa, in un modo o nell’altro, nelle loro esistenze. Più spesso tentennano, oppure si chiamano fuori. Cercano di venire a patti con i propri desideri, non sempre onesti. Di dominare la frustrazione, lo sconcerto che a volte produce il vivere quotidiano. E’ questo a renderli così interessanti e così simili…a cosa? A noi stessi? A tante persone che conosciamo, forse la maggioranza? Sì, certo, anche se non possiamo spingerci a dire che davvero l’essenza dell’essere maschi, in Europa e nel XXI° secolo, sia tutta qui (immagino non lo pensasse neanche l’autore). Una bella fetta di quell’essenza sì, però.
Il libro di Szalay è stato finalista al Man Booker Prize ed è stato classificato dal New York Times fra gli imperdibili del 2016. La lingua è precisa nel descrivere gli ambienti, che sono una parte importante della narrazione, ma altrettanto esatta e priva di sprechi (pur senza scivolare nel minimalismo) quando illumina i pensieri dei personaggi, i loro monologhi interiori, le conversazioni che intrattengono con mogli, amanti, amici, anche i loro non-detti.
Fedele ad una gloriosa tradizione, l’autore non conduce questi racconti – narrati solitamente in terza persona soggettiva – ad alcun approdo, li interrompe a mezzo. L’epifania rimane irrisolta. A volte i suoi uomini la intravvedono, fra le pieghe delle vicende che sperimentano – o che subiscono – ma non ne esplorano a fondo consistenza e dimensioni. Il senso ultimo delle cose, rimane al di là della loro portata, anche quando sono prossimi alla sconfitta definitiva (il magnate russo) e alla morte (l’anziano inglese che ha scelto come buon ritiro una regione italiana più a buon mercato della Toscana). Posto che un senso, un senso del vivere, sottratto alle incombenze quotidiane, alla soddisfazione dei bisogni estemporanei, al confronto/conflitto con i propri simili, esista davvero, e questo Szalay non ce lo dice. Ma immaginiamo che se lo ritenesse possibile, troverebbe il modo di biasimarli, questi uomini, per la loro irresolutezza. Cosa che si guarda bene dal fare.
David Szalay, Tutto quello che è un uomo, Adelphi, 2017 (trad. Anna Rusconi).